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giovedì 22 ottobre 2015

Cibo e paesaggio


                                     Verdure dell'orto, acquarello su carta

  Circa 10.000 anni fa in zone del pianeta particolarmente fertili come il delta del Nilo o del fiume Giallo nasceva l’agricoltura, cioè l’uomo smise lo stato migratorio  alla ricerca di prodotti della natura di cui cibarsi per diventare stanziale coltivandoli. Da quel momento la produzione di cibo, in misura più o meno accentuata, apporta modifiche al territorio e quindi al paesaggio naturale. Queste modifiche seguono i cambiamenti dell’economia agricola nelle varie epoche come sottolineava Emilio Sereni nella sua Storia del paesaggio agrario italiano, a partire dalla colonizzazione greca fino ai giorni nostri, edito nel 1961 da Laterza. Le colture seguono dunque la cultura e viceversa. Cosi l’alimentazione di popolazioni sempre più numerose, proprio grazie alla possibilità di reperire il nutrimento, ha come conseguenza l’uso del disboscamento per ricavare terreno agricolo dove coltivare piante che lo producano. Fintanto che la città viveva delle coltivazioni delle terre del circondario anche il cittadino si rendeva conto della stretta interdipendenza tra uomo e natura. La produzione a km zero, come la si definisce oggi, costituiva proprio la più stretta relazione fra il produttore ed il consumatore, infatti quando nasce la città, come ci ricorda Louis Munford, nasce anche la separazione tra chi coltiva,  contadino, e chi consuma,  cittadino. Ma prima dell’epoca moderna questa frattura non arriva alla alienazione dalla coscienza  del consumatore inurbato di appartenere alla natura e di dipenderne. E’ in epoca industriale che cio’ avviene : quando cioè nascono le grandi compagnie per la produzione alimentare. Anche in questo campo le tecnoscenze introducono la convinzione che la natura sia dominata e sia un pozzo senza fondo con il conseguente suo impiego ai fini del profitto in una economia del denaro.  Oggi notiamo che più della metà della popolazione mondiale abita le aree urbane, cioè quelle zone cementificate prive di coltivazioni dove il cibo arriva da molto lontano seguendo le leggi del mercato tramite i mezzi di trasporto sempre più rapidi.  Nel resto del globo il territorio è soggetto ad ogni tipo di sfruttamento a fini agricoli o estrattivi e le aree selvatiche rimangono una stretta minoranza continuando ad essere minacciate dai disboscamenti con grave pericolo per la biodiversità, come recita la stessa Enciclica di Papa Francesco, Laudato si. Contemporaneamente questa cultura dello spreco e del consumo rapido produce grandi quantità di rifiuti  il cui smaltimento va a turbare gli equilibri naturali, in genere nei paesi più poveri.  Il paesaggio cosi non viene solo distrutto dall’industria edilizia e dalla cementificazione selvaggia ma anche dalla scriteriata produzione alimentare. Esempi sono le monoculture, le serre, le stalle, le porcilaie, i pollifici ecc. Tutto questo richiede una regolamentazione, che spesso non esiste, che tenga presente che « non di solo pane vive l’uomo » ma anche di bellezza e particolarmente in Italia dove il paesaggio costituisce una risorsa anche economica che va tutelata e rispettata trovando un equilibrio tra le due necessità. Del resto sta avanzando una cultura ecologica che promuove produzioni agricole anche nelle aree cittadine attraverso l’uso di orti di prossimità e l’utilizzo di alberi da frutto nei parchi urbani. Congiuntamente si riempiono terrazzi e tetti piani di vegetazione provocando cosi la nascita di una nuova coscienza che contribuirà alla salvaguardia della natura e questa è la migliore garanzia per il futuro delle nuove generazioni. Questo doveva essere messo inevidenza da EXPO e non la gastronomia dei vari paesi partecipanti insieme alle multinazionali del cibo. Si discuterà di questo giovedi 5 novembre mattino alla Società Umanitaria nell’ambito del convegno Cibo e Paesaggio.



domenica 13 ottobre 2013

La politica e la cultura televisiva

In  questo tribulato e confuso periodo della vita pubblica in Italia, che non ha mai raggiunto un così basso profilo,  viene quasi automatica una riflessione su elaborazione culturale e azione politica ai tempi della televisione e di internet.
Il tema non è nuovo ed è stato più volte affrontato anche nel secolo scorso da diverse angolazioni e da diversi autori, a partire da Louis Munford fino a Erich Fromm, ma cinquanta-sessant’anni fa non vi erano i mezzi di comunicazione odierni e poi “repetita iuvant”.
Qualche organo di stampa nazionale recentemente ha titolato pressappoco così alcuni articoli: “Son tornati di moda i salotti letterari”. Quasi a dire che ai tempi della rete si torna ad aver bisogno dello scambio culturale dal vivo. In effetti la storia ci insegna che l’intellighenzia nei secoli, ma soprattutto a partire dal settecento, l’epoca dei lumi, fino a tutto l’ottocento si ritrovava nel salotto della tal dama o del tal potente che mettevano a disposizione la propria dimora per il piacere di discutere le  nuove idee che poi, grazie a loro, trovavano un canale per influenzare la politica. Questa  abitudine si è protratta anche nel 900 almeno fino alla nascita della televisione.
In Italia nel dopoguerra,  dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, si sono moltiplicati i partiti e la politica, che dovrebbe essere figlia della cultura, ha trovato nuove forme di aggregazione e discussione nelle sezioni di partito dove fino agli anni ottanta, si discuteva dopo cena delle linee e degli interessi della propria parte in relazione alla interpretazione dei bisogni della società anche con le persone che la rappresentavano nelle istituzioni. Questi luoghi di dibattito  attraevano anche gli altri centri di cultura, le università, la scuola e per l'appunto i salotti, perché lì si distribuivano gli incarichi di potere. Poi è arrivata la crisi dei partiti e si sono moltiplicati altri luoghi di aggregazione come le associazioni e i centri sociali che però non avevano e non hanno un chiaro sbocco politico, salvo rari casi. La televisione e i salotti televisivi  nel frattempo hanno preso il monopolio della politica. La crisi di credibilità dei partiti si è andata sviluppando infatti quando, anche grazie al mezzo televisivo che ci rende tutti passivi ascoltatori,  invece di costituire il legame fra i movimenti di idee e le rappresentanze istituzionali, o meglio fra i bisogni della gente ed il potere come servizio, sono diventati tout court dei sistemi oligarchici di distribuzione del potere. La funzione del partito, come previsto dalla Costituzione, forma di aggregazione collettiva di persone che hanno le stesse opinioni e gli stessi bisogni e cercano una rappresentanza da mandare nei centri decisionali, così finisce per naufragare nel mare di interessi personali dei vari leader che nel frattempo hanno trovato una sistemazione redditizia che si guardano bene dal lasciare. A questo fallimento, come dicevamo, contribuisce non poco il sistema dei media  che negli ultimi 30-40 anni hanno assunto una valenza poderosa nella formazione delle opinioni. In tempi di televisione, a partire dagli anni settanta-ottanta si ha una sorta di estraneazione dei politici dalla società che vogliono rappresentare. Da qui la nascita della cosiddetta Società Civile, in contrapposizione alla politica del malaffare, che ha favorito e sostenuto Tangentopoli. Ma la vittoria del puritanesimo, anche nella Storia, non ha  mai prodotto grandi cose. In sintesi si è creata una crisi di rappresentanza che in democrazia significa una disfunzione del meccanismo che dovrebbe permettere a chiunque il passaggio dal ruolo di cittadino a quello di rappresentante. Questo rischio è insito alle democrazie, e succede anche in altri paesi, ma quelle più consolidate hanno meccanismi che non permettono eccessive degenerazioni. Da noi impera la demagogia e dopo Tangentopoli, che ha azzerato la classe politica della prima repubblica mediante il potere giudiziario, abbiamo il populismo.  Tradizionalmente questo meccanismo era sostenuto dai centri di cultura che permettevano a chiunque di “rilevarsi da solo”, come recita ad esempio lo statuto dell’Umanitaria, non a caso in piena crisi d’identità, che era stata fondata proprio a questo scopo, cioè di dare ai diseredati le stesse opportunità dei privilegiati.  Ma non solo, come dicevamo anche le università, i circoli, i clubs, i salotti culturali  e via, benchè l’accesso in altri tempi era precluso ai più esisteva però un filo diretto tra questi luoghi di elaborazione  teorica e l’azione politica, basti pensare ad un Mazzini che, vissuto in clandestinità, influenzava con le sue idee l’azione di migliaia di giovani. Oggi il mass-media televisivo ha sostituito ogni altro modo di comunicare e poiché il mezzo è per sua natura superficiale, e oggetto di manipolazione da parte del potere, assistiamo,  senza poter partecipare, anzicchè a un dibattito di idee ad una sorta di marketing televisivo di questo o quel personaggio promosso dal circuito mediatico. Non a caso a chi si propone in politica sentiamo fare la seguente domanda: “Ma tu  che rapporti hai con i media”? Assistiamo in sostanza ad una diffusa sclerotizzazione della politica che diventa difesa della Casta. In termini psicologici potremmo chiamarla nevrosi del potere se con Adler intendiamo per nevrosi la volontà di potenza senza sentimento sociale. Bene ha fatto il Presidente Napolitano a sottolineare la conflittualità senza senso tra i partiti con la citazione di Benedetto Croce  alla Costituente, ma forse il filosofo, concluso il fascismo e la guerra, era troppo ottimista sulla funzione dei partiti, sui mali della democrazia e la funzione dei media. Non si è mai citata tanto la Costituzione come di questi tempi.  Il mezzo televisivo ha sparigliato le carte, usato male ha diviso la società in visibili e invisibili, gli invisibili hanno scarse possibilità non solo in  politica.  In quest’ultima è diventato uno strumento formidabile nella organizzazione del consenso e nella creazione di personaggi da far eleggere in parlamento. E’ noto l’episodio di Cicciolina, la pornostar presentata dai radicali ed eletta. Non a caso per quasi vent’anni siamo stati governati dal proprietario di buona parte dei media, dai suoi avvocati, dalle sue soubrettes e dai suoi conduttori. La televisione ha dunque contribuito a generare i tre eccessi della contemporaneità, o surmodernitè per Marc Augè, eccesso di tempo, eccesso di spazio e di individualismo, la società liquida per Baumann, cioè la rottura della solidarietà.
La domanda che ci poniamo ora è questa: stando così le cose come si può ricostruire il legame necessario tra elaborazione teorica ed esercizio del potere? Il governo dei tecnici non è la soluzione, può essere un palliativo in una situazione di emergenza ma non può essere certo sempre delegata a governare l’Università che nel frattempo ha perduto il suo prestigio a causa del livellamento verso il basso delle lauree, produce disoccupazione intellettuale ed ha gli stessi problemi di clientelismo dei partiti di cui è stata spesso la ruota di scorta. In sintesi bisogna trovare una nuova forma di organizzazione della domanda di rappresentanza che non sia quella dei partiti storici. Ecco allora apparire i movimenti, come quello arancione a Milano, che raccolgono le esigenze di cambiamento ma con quale elaborazione teorica? Proprio per non avere basi certe ora viene tirato di qua o di là  dai demagoghi che vogliono sfruttare il suo brand.
E’ certamente una novità la rete  di Internet, anche se per ora non ha raggiunto i livelli di popolarità della televisione, permette di interagire, di dialogare, ciascuno può mettersi in rete, sembra più democratica per questo. Il successo dei forum virtuali, come ad esempio Arcipelagomilano, sono lì a dimostrarlo ma anche la rete ha i limiti suoi propri e, come tutti gli strumenti  della tecnica, può essere usata bene o male, in fin dei conti non è che un’accelerazione del sistema postale, tu puoi mandare mail al potente e questo non rispondere. Sembra invece che l’antidoto alla società liquida sia proprio un ritorno al passato, come si diceva all’inizio,  e cioè ai circoli, ai salotti, ai “cabinet litteraire”, luoghi dove ci si incontra di persona e non solo in maniera virtuale. La crisi economica forse rallentando i ritmi ci riconduce all’antica passione di dialogare e di incontrarsi? Può darsi. E’ auspicabile, secondo il sociologo Zygmut Bauman si può uscire dalla crisi solo passando da un modello incentrato sull’individuo a uno che si basi invece su un’esperienza etica ed estetica, privilegiando i rapporti umani ed il contesto. E’ da lì che può nascere un rinnovamento della politica, un nuovo umanesimo come auspicava Erich Fromm, non certo da false primarie con candidati  imposti e sostenuti o dai “tecnici dell’economia”. Da lì può rinascere la voglia di premiare il merito e non l’immagine, la voglia di farsi rappresentare da chi ha a cuore l’interesse collettivo e la voglia di servirlo.