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martedì 22 maggio 2018

Bellezza cultura e paesaggio



 
Potremmo partire da un’affermazione di sapore plotiniano su ciò che è brutto e cioè: quello che non viene da noi considerato, guardato, ovvero viene trascurato. Certo, il neoplatonismo non è più di moda, anche se sul concetto di bellezza ha molto indagato e ha fornito diversi spunti agli umanisti del Rinascimento, e non solo, ma  ho parlato di bruttezza. Il problema estetico oggi appare molto complesso. Intanto occorre dire che la cultura, da un punto di vista antropologico, si può definire come una risposta ai bisogni e ai problemi di un determinato popolo, in un dato periodo storico, nel rapporto con il proprio territorio e la natura, ai fini di un miglioramento della qualità della vita: infatti deriva dal latino còlere che significa “coltivare ovvero avere cura del luogo”. Nelle società agricole la cultura era legata alla terra e alle capacità dell’uomo di trarne vantaggi, poi ha acquistato un significato più ampio relativo alla capacità di produrre benessere e felicità. Essendo la bellezza promessa e frutto di felicità  quindi si può anche dire che la cultura avrebbe come compito quello di produrre bellezza. È l’insieme di usi e costumi del vivere in comune che poi si manifestano concretamente nella città. I popoli civili si differenziavano dai barbari proprio perché avevano realizzato magnifiche città. Infatti il termine civile deriva da cives = cittadino. Con la civiltà industriale le città si sganciano dalla dipendenza nei confronti del territorio circostante e quindi dal rapporto profondo, sacro, con esso. Per cui anche la cultura si stacca dal territorio e si identifica con la nazione o la lingua, o peggio la razza. Oggi nella civiltà tecnologica le culture si sono mescolate fino a formare un’unica grande cultura nell’Occidente sviluppato e industrializzato, ma ora anche in Cina e India, che domina il resto del mondo. Questa però, influenzata dagli interessi economici, ha perso ogni contatto con il suo significato profondo originario e qualcuno la definisce più un’incultura, nel senso che non è più orientata alla ricerca della felicità dell’uomo nel suo rapporto con la natura, bensì a dominare quest’ultima e dilapidarla in nome dell’avidità di guadagno. Bene è descritto questo processo in  Il Paradiso Occidente di Stefano Zecchi. Ciò conduce a eccessi nella qualità del vivere che nascono dall’ideologia dello sviluppo illimitato e portano al disagio e all’infelicità.
L’antropologo Marc Augé identifica tre eccessi nel mondo contemporaneo (o “surmodernité” come lo definisce): un eccesso di tempo, un eccesso di spazio e un eccesso di individualismo. Il primo è dovuto all’accelerazione della storia: i media rendono storia eventi che accadono a distanze temporali ravvicinate; il secondo al fatto che avvenimenti in luoghi lontani vengono vissuti come vicini, grazie alla televisione e internet; infine il terzo eccesso è causato dal fatto che sempre più l’individuo è chiamato a vivere la vita e la società in modo individualistico. Il sociologo Zygmunt Bauman definisce questa società senza più appartenenza ed estremamente superficiale “società liquida”: questa ha prodotto l’attuale crisi estetica ed economica dalla quale si potrebbe uscire, secondo lui, solo passando da un modello incentrato sull’individuo a uno che si basi invece su un’esperienza etica ed estetica, privilegiando i rapporti umani e il contesto. La domanda che scaturisce da queste riflessioni sulla cultura dell’Occidente è questa: è possibile parlare di bellezza in questa società? Come si diceva all’inizio essa è il frutto di cura e attenzione e amore il contrario di superficialità e trascuratezza.   Il paesaggio   è la riprova, se ce ne fosse bisogno, della sostanziale  criminosa indifferenza con cui viene deturpato. La risposta dunque che mi do è che non è possibile ma necessario partire dalla bellezza per una inversione di tendenza.  Tutto ci induce a credere infatti che le trasformazioni del paesaggio naturale abbiano conseguenze ben più profonde di quanto non siano quelle, sia pur gravi, della perdita dei riferimenti spaziali o della memoria dei propri antenati. In definitiva per la nostra parte più profonda la montagna viene ad assumere un significato di ascesa verso il divino e un’evoluzione  interiore, le acque per Mircea Eliade sono la vita primigenia, “fons e origo” di tutte le possibiltà esistenziali, il bosco è la vita con tutte le sue luci e ombre, l’albero è l’albero della vita, esprime tutto ciò che l’uomo religioso considera reale e sacro, il cielo esprime sempre il trascendente. I valori simbolici degli elementi naturali dimostrano l’universalità di questo antico linguaggio dell’inconscio e l’interrelazione tra interno ed esterno. Noi abbiamo tolto ogni valore a ciò con grande presunzione creando una mentalità consumista e tecnicista per cui la montagna è un’ accidentalità geologica da perforare, le acque sono degli scarichi naturali, i boschi sono stati tagliati o bruciati. E’ evidente che nella misura in cui abbiamo deturpato e deriso il nostro ambiente naturale abbiamo anche intorbidato il nostro mondo interiore e quindi il nostro equilibrio psicofisico.

venerdì 30 settembre 2016

Ancora di periferie

                                            L'albero dei poeti, acquarello su carta 2011

Perchè è cosi difficile risanare le periferie? Come già esposto in un mio recente articolo è stata la prima rivoluzione industriale a generare i grandi agglomerati periferici, in Francia chiamati banlieues.Le fabbriche si sono stabilite fuori dalle mura della città storica ed hanno pompato manodopera, dalle campagne prima, dai paesi sottosviluppati e dal terzo mondo poi, che avendo necessità abitative ha obbligato amministratori e imprenditori a costruire case nel circondario. Quando le fabbriche si sono trasferite, nel processo di terziarizzazione della città, sono rimaste le case con i grandi buchi delle aree ex industriali. Queste abitazioni naturalmente non brillano per qualità e soprattutto spesso mancano delle infrastrutture necessarie che  l’amministrazione pubblica o i privati lasciano in sospeso per anni. E’ emblematica la questione dei problemi legati all’igiene edilizio nella fine ottocento in Inghilterra e da noi nella prima metà del secolo scorso.Molte volte questa situazione è durata per diverso tempo tanto da far crescere due o tre generazioni di abitanti in situazioni precarie. Questa realtà ha provocato e approfondito il solco che separava e separa i diseredati dai  privilegiati, ovvero i poveri dai ricchi, oggi in regime di globalismo e di sviluppo dei trasporti è più profonda la disuguaglianza fra periferia e centro di una stessa città che tra paesi diversi. Teniamo presente che ormai il termine “periferico”si applica a tutto cio’ che viene trascurato. Infatti la casualità e l’abbandono, oltre alla trascuratezza, sono lo stigma di queste conurbazioni dove regna il disprezzo per la vita comune. Plotino affermava che è brutto cio’ che la nostra anima trascura, cioè senza cura, è evidente dunque che le categorie del brutto le troviamo prevalentemente in periferia. Naturalmente cio’ non è sempre vero ma nell’immaginario comune è cosi. Ora per rendere il brutto bello occorrono primariamente da parte del soggetto pianificatore cura, attenzione e amore ma non è semplice in una popolazione abituata da sempre al brutto. La cura è qui intesa come esecuzione a regola d’arte, l’attenzione è il contrario di negligenza e disattenzione, nel nostro caso rispetto al sito e all’utenza, il risultato migliore essendo sempre quel manufatto che si potrebbe considerare come se fosse sempre esistito: cioè che finisce per arricchire e completare un luogo. Infine l’amore è quindi una volontà che inserisce il proprio fare in una finalità di benessere e rispetto per la vita. Queste qualità soggettive si sostanziano poi negli oggetti  in ordine, equilibrio, eleganza e coerenza. Vi pare che queste siano condizioni facilmente raggiungibili? A volte occorrono decenni per invertire la tendenza al degrado, non bastano interventi episodici calati dall’alto e nemmeno abbattimenti a volte necessari. Torno a ripetere quanto affermato in un mio precedente scritto e nel mio libro, “L’altro architetto”, che la presenza del verde, nel senso di giardini ben curati, alberi, fiori ed elementi vegetali puo’ aiutare a invertire la tendenza al degrado perchè la loro bellezza, frutto della cura, è fortemente contagiosa, come anche curare l’arredo urbano che denota ordine e presenza dell’autorità, senza considerare il risanamento delle case i cui abitanti sono affetti da sick building sindrome, sindrome da edificio malato, pare che il 20% del patrimonio immobiliare italiano sia costruito con materiali che creano questo problema. Senza fare i soliti proclami di interventi magniloquenti da affidare al solito archistar di turno cominciamo da qui. 

Queste note sono tratte dal libro L'altro architetto che verrà ripresentato il 7 ottobre ore 17 a Bordighera  all'Istituto internazionale di Studi Liguri via Romana 39  

lunedì 21 ottobre 2013

politica della bellezza


Trattare di bellezza non è una evasione dalla politica come sembrerebbe ad alcuni. Parlare di politica della bellezza sembra un ossimoro, un mettere a confronto due contrari: il brutto e il bello, visto l'indice di gradimento mai così basso della politica nostrana. Tuttavia l’uomo è un essere politico dove con questo termine si intende il contesto di interrelazioni che lo legano ai suoi simili. Da questo punto di vista tutto è politica, parafrasando James Hillman il sé è politico e, accettando il valore dell’etimologia dove polis è la città, il governo di questa dovrebbe tendere a renderla bella il più possibile. Tra parentesi per i Greci, dai quali abbiamo imparato la civiltà, l’esercizio delle virtù civili aveva come scopo la felicità che per loro coicideva con la bellezza, un sogno etico ed estetico insieme che  duemila anni dopo fece dire a Stendhal che la bellezza è una promessa di felicità. Seguendo questo ragionamento ed osservando che la grande rimozione del secolo scorso è proprio stata la bellezza si potrebbe dire che cercandola  si risana anche la politica o anche che una buona politica cerca la bellezza.
Credo che se ai tre principi fondamentali  della rivoluzione francese,  che ha influenzato le democrazie moderne,  si fosse aggiunto anche il diritto alla bellezza tante nefandezze del ‘900 si sarebbero evitate. Plotino affermava che il brutto non è altro che ciò che la nostra anima trascura e quindi non è denominato da una forma. E’ il caos del disordine, del senza cura, della disattenzione, dell’ avidità e della confusione dei valori.  Non è questo che noi rimproveriamo in Italia alla politica? Abbiamo personaggi che si presentano alle elezioni promettendo di tutto, demagoghi che approfittano dello scontento e della rabbia per guadagnare un potere inutile perché non hanno nessuna disposizione per la politica, appunto come scienza del vivere insieme per il bene comune. Personalità egoiche che non hanno saputo individuarsi e ne escono assurdità. Vi è una nevrosi diffusa nella nostra società: è malata di narcisismo.
La politica dunque avrebbe come compito primario di ricondurre alla bellezza come rispetto per la vita, che naturalmente si traduce in  rispetto per tutto ciò che vive, uomini e natura. Il poeta filosofo libanese Kalil Gibran afferma infatti che la bellezza non è altro che la vita quando mostra il suo lato benedetto. Si definisce la politica anche come arte del possibile, ecco che da questa affermazione ne discende che migliorando la polis migliori la politica. Ricordiamo per inciso che l’aspetto delle città lo si decide nelle giunte comunali, luoghi tipici della politica. Ci dobbiamo chiedere quindi in questo momento di crisi di quest’ultima che cosa può fare la cultura della bellezza per migliorarla? L’etimologia ci viene sempre in soccorso e insegna che cultura deriva dal latino colere, in italiano coltivare, quindi passare da uno stato selvaggio a uno coltivato. I francesi dicono di un uomo colto “bien cultivè” e la coltivazione prevede la capacità di cura , di pazienza e di educazione che poi è l’arte maieutica di far uscire la parte migliore di noi. Come diceva Socrate dobbiamo utilizzare le virtù della levatrice che sono: la pazienza, la competenza e l’esperienza. Non si ottiene un gran che se il nostro desiderio di fama e di potere ci fa saltare le tappe che la natura ci ha imposto per accedere a livelli superiori di consapevolezza. Dovremmo  dunque essere in grado di  tornare ad una cultura responsabile e quindi saggia, cioè in grado di abbracciare il tutto. Occorre che esercitiamo la capacità di osservare la foresta e non solo di contare gli alberi, dovremmo abbandonare dunque il primato dell’economia del denaro a favore di una ecosofia che sancisca il valore di un nuovo  star bene.  Sembra che la bellezza non abbia a che fare con l’economia  perché la consideriamo come accessoria, un lusso, ma ci siamo mai chiesti quanto costi la bruttezza? Quanto costino in termini di benessere fisico ed equilibrio psicologico un design trascurato, colori da quattro soldi, strutture e spazi senza senso? Passare una giornata in un ufficio brutto, su sedie scomode, in mezzo al disordine e allo sporco, per poi alla fine della giornata tuffarsi nel sistema del traffico e dei mezzi pubblici e infine in un fast food e in un’ abitazione di serie. Che costo ha tutto questo? Quanto costa in termini di assenteismo, di ossessione sessuale, di abbandono della scuola, di iperalimentazione, di attenzione frammentaria, di rimedi farmaceutici, dello spreco consumistico, della dipendenza dalla chimica?  Forse che le cause dei maggiori problemi sociali, politici ed economici della nostra epoca non potrebbero ricercarsi anche nell’assenza della bellezza?  La nuova cultura  potrà incidere sulla politica, nel senso che garantirà una selezione di personalità che si distingueranno per competenza e responsabilità, che  trascenderanno  l’ego insaziabile e matureranno un sé distaccato che accede alla politica per il bene collettivo. Non sarà un percorso facile, bisogna esercitare la pazienza perché si prevedono cadute e ricadute.  Ma infine che cos’è bellezza? Se non sei in armonia non la vedi perché la guerra è la sua nemica e uno stato di guerra è anche quello generato da un’economia di rapina che dimentica i valori umani ed esaspera la conflittualità nella concorrenza, è il pensiero dicotomizzato, amico-nemico, dominio-sottomissione. Rimettere al centro la bellezza dunque è un buon antidoto alla conflittualità permanente che notiamo anche nella politica nostrana. La passione estetica è un contravveleno alla passione per la guerra.