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lunedì 21 ottobre 2013

politica della bellezza


Trattare di bellezza non è una evasione dalla politica come sembrerebbe ad alcuni. Parlare di politica della bellezza sembra un ossimoro, un mettere a confronto due contrari: il brutto e il bello, visto l'indice di gradimento mai così basso della politica nostrana. Tuttavia l’uomo è un essere politico dove con questo termine si intende il contesto di interrelazioni che lo legano ai suoi simili. Da questo punto di vista tutto è politica, parafrasando James Hillman il sé è politico e, accettando il valore dell’etimologia dove polis è la città, il governo di questa dovrebbe tendere a renderla bella il più possibile. Tra parentesi per i Greci, dai quali abbiamo imparato la civiltà, l’esercizio delle virtù civili aveva come scopo la felicità che per loro coicideva con la bellezza, un sogno etico ed estetico insieme che  duemila anni dopo fece dire a Stendhal che la bellezza è una promessa di felicità. Seguendo questo ragionamento ed osservando che la grande rimozione del secolo scorso è proprio stata la bellezza si potrebbe dire che cercandola  si risana anche la politica o anche che una buona politica cerca la bellezza.
Credo che se ai tre principi fondamentali  della rivoluzione francese,  che ha influenzato le democrazie moderne,  si fosse aggiunto anche il diritto alla bellezza tante nefandezze del ‘900 si sarebbero evitate. Plotino affermava che il brutto non è altro che ciò che la nostra anima trascura e quindi non è denominato da una forma. E’ il caos del disordine, del senza cura, della disattenzione, dell’ avidità e della confusione dei valori.  Non è questo che noi rimproveriamo in Italia alla politica? Abbiamo personaggi che si presentano alle elezioni promettendo di tutto, demagoghi che approfittano dello scontento e della rabbia per guadagnare un potere inutile perché non hanno nessuna disposizione per la politica, appunto come scienza del vivere insieme per il bene comune. Personalità egoiche che non hanno saputo individuarsi e ne escono assurdità. Vi è una nevrosi diffusa nella nostra società: è malata di narcisismo.
La politica dunque avrebbe come compito primario di ricondurre alla bellezza come rispetto per la vita, che naturalmente si traduce in  rispetto per tutto ciò che vive, uomini e natura. Il poeta filosofo libanese Kalil Gibran afferma infatti che la bellezza non è altro che la vita quando mostra il suo lato benedetto. Si definisce la politica anche come arte del possibile, ecco che da questa affermazione ne discende che migliorando la polis migliori la politica. Ricordiamo per inciso che l’aspetto delle città lo si decide nelle giunte comunali, luoghi tipici della politica. Ci dobbiamo chiedere quindi in questo momento di crisi di quest’ultima che cosa può fare la cultura della bellezza per migliorarla? L’etimologia ci viene sempre in soccorso e insegna che cultura deriva dal latino colere, in italiano coltivare, quindi passare da uno stato selvaggio a uno coltivato. I francesi dicono di un uomo colto “bien cultivè” e la coltivazione prevede la capacità di cura , di pazienza e di educazione che poi è l’arte maieutica di far uscire la parte migliore di noi. Come diceva Socrate dobbiamo utilizzare le virtù della levatrice che sono: la pazienza, la competenza e l’esperienza. Non si ottiene un gran che se il nostro desiderio di fama e di potere ci fa saltare le tappe che la natura ci ha imposto per accedere a livelli superiori di consapevolezza. Dovremmo  dunque essere in grado di  tornare ad una cultura responsabile e quindi saggia, cioè in grado di abbracciare il tutto. Occorre che esercitiamo la capacità di osservare la foresta e non solo di contare gli alberi, dovremmo abbandonare dunque il primato dell’economia del denaro a favore di una ecosofia che sancisca il valore di un nuovo  star bene.  Sembra che la bellezza non abbia a che fare con l’economia  perché la consideriamo come accessoria, un lusso, ma ci siamo mai chiesti quanto costi la bruttezza? Quanto costino in termini di benessere fisico ed equilibrio psicologico un design trascurato, colori da quattro soldi, strutture e spazi senza senso? Passare una giornata in un ufficio brutto, su sedie scomode, in mezzo al disordine e allo sporco, per poi alla fine della giornata tuffarsi nel sistema del traffico e dei mezzi pubblici e infine in un fast food e in un’ abitazione di serie. Che costo ha tutto questo? Quanto costa in termini di assenteismo, di ossessione sessuale, di abbandono della scuola, di iperalimentazione, di attenzione frammentaria, di rimedi farmaceutici, dello spreco consumistico, della dipendenza dalla chimica?  Forse che le cause dei maggiori problemi sociali, politici ed economici della nostra epoca non potrebbero ricercarsi anche nell’assenza della bellezza?  La nuova cultura  potrà incidere sulla politica, nel senso che garantirà una selezione di personalità che si distingueranno per competenza e responsabilità, che  trascenderanno  l’ego insaziabile e matureranno un sé distaccato che accede alla politica per il bene collettivo. Non sarà un percorso facile, bisogna esercitare la pazienza perché si prevedono cadute e ricadute.  Ma infine che cos’è bellezza? Se non sei in armonia non la vedi perché la guerra è la sua nemica e uno stato di guerra è anche quello generato da un’economia di rapina che dimentica i valori umani ed esaspera la conflittualità nella concorrenza, è il pensiero dicotomizzato, amico-nemico, dominio-sottomissione. Rimettere al centro la bellezza dunque è un buon antidoto alla conflittualità permanente che notiamo anche nella politica nostrana. La passione estetica è un contravveleno alla passione per la guerra.      

domenica 13 ottobre 2013

La politica e la cultura televisiva

In  questo tribulato e confuso periodo della vita pubblica in Italia, che non ha mai raggiunto un così basso profilo,  viene quasi automatica una riflessione su elaborazione culturale e azione politica ai tempi della televisione e di internet.
Il tema non è nuovo ed è stato più volte affrontato anche nel secolo scorso da diverse angolazioni e da diversi autori, a partire da Louis Munford fino a Erich Fromm, ma cinquanta-sessant’anni fa non vi erano i mezzi di comunicazione odierni e poi “repetita iuvant”.
Qualche organo di stampa nazionale recentemente ha titolato pressappoco così alcuni articoli: “Son tornati di moda i salotti letterari”. Quasi a dire che ai tempi della rete si torna ad aver bisogno dello scambio culturale dal vivo. In effetti la storia ci insegna che l’intellighenzia nei secoli, ma soprattutto a partire dal settecento, l’epoca dei lumi, fino a tutto l’ottocento si ritrovava nel salotto della tal dama o del tal potente che mettevano a disposizione la propria dimora per il piacere di discutere le  nuove idee che poi, grazie a loro, trovavano un canale per influenzare la politica. Questa  abitudine si è protratta anche nel 900 almeno fino alla nascita della televisione.
In Italia nel dopoguerra,  dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, si sono moltiplicati i partiti e la politica, che dovrebbe essere figlia della cultura, ha trovato nuove forme di aggregazione e discussione nelle sezioni di partito dove fino agli anni ottanta, si discuteva dopo cena delle linee e degli interessi della propria parte in relazione alla interpretazione dei bisogni della società anche con le persone che la rappresentavano nelle istituzioni. Questi luoghi di dibattito  attraevano anche gli altri centri di cultura, le università, la scuola e per l'appunto i salotti, perché lì si distribuivano gli incarichi di potere. Poi è arrivata la crisi dei partiti e si sono moltiplicati altri luoghi di aggregazione come le associazioni e i centri sociali che però non avevano e non hanno un chiaro sbocco politico, salvo rari casi. La televisione e i salotti televisivi  nel frattempo hanno preso il monopolio della politica. La crisi di credibilità dei partiti si è andata sviluppando infatti quando, anche grazie al mezzo televisivo che ci rende tutti passivi ascoltatori,  invece di costituire il legame fra i movimenti di idee e le rappresentanze istituzionali, o meglio fra i bisogni della gente ed il potere come servizio, sono diventati tout court dei sistemi oligarchici di distribuzione del potere. La funzione del partito, come previsto dalla Costituzione, forma di aggregazione collettiva di persone che hanno le stesse opinioni e gli stessi bisogni e cercano una rappresentanza da mandare nei centri decisionali, così finisce per naufragare nel mare di interessi personali dei vari leader che nel frattempo hanno trovato una sistemazione redditizia che si guardano bene dal lasciare. A questo fallimento, come dicevamo, contribuisce non poco il sistema dei media  che negli ultimi 30-40 anni hanno assunto una valenza poderosa nella formazione delle opinioni. In tempi di televisione, a partire dagli anni settanta-ottanta si ha una sorta di estraneazione dei politici dalla società che vogliono rappresentare. Da qui la nascita della cosiddetta Società Civile, in contrapposizione alla politica del malaffare, che ha favorito e sostenuto Tangentopoli. Ma la vittoria del puritanesimo, anche nella Storia, non ha  mai prodotto grandi cose. In sintesi si è creata una crisi di rappresentanza che in democrazia significa una disfunzione del meccanismo che dovrebbe permettere a chiunque il passaggio dal ruolo di cittadino a quello di rappresentante. Questo rischio è insito alle democrazie, e succede anche in altri paesi, ma quelle più consolidate hanno meccanismi che non permettono eccessive degenerazioni. Da noi impera la demagogia e dopo Tangentopoli, che ha azzerato la classe politica della prima repubblica mediante il potere giudiziario, abbiamo il populismo.  Tradizionalmente questo meccanismo era sostenuto dai centri di cultura che permettevano a chiunque di “rilevarsi da solo”, come recita ad esempio lo statuto dell’Umanitaria, non a caso in piena crisi d’identità, che era stata fondata proprio a questo scopo, cioè di dare ai diseredati le stesse opportunità dei privilegiati.  Ma non solo, come dicevamo anche le università, i circoli, i clubs, i salotti culturali  e via, benchè l’accesso in altri tempi era precluso ai più esisteva però un filo diretto tra questi luoghi di elaborazione  teorica e l’azione politica, basti pensare ad un Mazzini che, vissuto in clandestinità, influenzava con le sue idee l’azione di migliaia di giovani. Oggi il mass-media televisivo ha sostituito ogni altro modo di comunicare e poiché il mezzo è per sua natura superficiale, e oggetto di manipolazione da parte del potere, assistiamo,  senza poter partecipare, anzicchè a un dibattito di idee ad una sorta di marketing televisivo di questo o quel personaggio promosso dal circuito mediatico. Non a caso a chi si propone in politica sentiamo fare la seguente domanda: “Ma tu  che rapporti hai con i media”? Assistiamo in sostanza ad una diffusa sclerotizzazione della politica che diventa difesa della Casta. In termini psicologici potremmo chiamarla nevrosi del potere se con Adler intendiamo per nevrosi la volontà di potenza senza sentimento sociale. Bene ha fatto il Presidente Napolitano a sottolineare la conflittualità senza senso tra i partiti con la citazione di Benedetto Croce  alla Costituente, ma forse il filosofo, concluso il fascismo e la guerra, era troppo ottimista sulla funzione dei partiti, sui mali della democrazia e la funzione dei media. Non si è mai citata tanto la Costituzione come di questi tempi.  Il mezzo televisivo ha sparigliato le carte, usato male ha diviso la società in visibili e invisibili, gli invisibili hanno scarse possibilità non solo in  politica.  In quest’ultima è diventato uno strumento formidabile nella organizzazione del consenso e nella creazione di personaggi da far eleggere in parlamento. E’ noto l’episodio di Cicciolina, la pornostar presentata dai radicali ed eletta. Non a caso per quasi vent’anni siamo stati governati dal proprietario di buona parte dei media, dai suoi avvocati, dalle sue soubrettes e dai suoi conduttori. La televisione ha dunque contribuito a generare i tre eccessi della contemporaneità, o surmodernitè per Marc Augè, eccesso di tempo, eccesso di spazio e di individualismo, la società liquida per Baumann, cioè la rottura della solidarietà.
La domanda che ci poniamo ora è questa: stando così le cose come si può ricostruire il legame necessario tra elaborazione teorica ed esercizio del potere? Il governo dei tecnici non è la soluzione, può essere un palliativo in una situazione di emergenza ma non può essere certo sempre delegata a governare l’Università che nel frattempo ha perduto il suo prestigio a causa del livellamento verso il basso delle lauree, produce disoccupazione intellettuale ed ha gli stessi problemi di clientelismo dei partiti di cui è stata spesso la ruota di scorta. In sintesi bisogna trovare una nuova forma di organizzazione della domanda di rappresentanza che non sia quella dei partiti storici. Ecco allora apparire i movimenti, come quello arancione a Milano, che raccolgono le esigenze di cambiamento ma con quale elaborazione teorica? Proprio per non avere basi certe ora viene tirato di qua o di là  dai demagoghi che vogliono sfruttare il suo brand.
E’ certamente una novità la rete  di Internet, anche se per ora non ha raggiunto i livelli di popolarità della televisione, permette di interagire, di dialogare, ciascuno può mettersi in rete, sembra più democratica per questo. Il successo dei forum virtuali, come ad esempio Arcipelagomilano, sono lì a dimostrarlo ma anche la rete ha i limiti suoi propri e, come tutti gli strumenti  della tecnica, può essere usata bene o male, in fin dei conti non è che un’accelerazione del sistema postale, tu puoi mandare mail al potente e questo non rispondere. Sembra invece che l’antidoto alla società liquida sia proprio un ritorno al passato, come si diceva all’inizio,  e cioè ai circoli, ai salotti, ai “cabinet litteraire”, luoghi dove ci si incontra di persona e non solo in maniera virtuale. La crisi economica forse rallentando i ritmi ci riconduce all’antica passione di dialogare e di incontrarsi? Può darsi. E’ auspicabile, secondo il sociologo Zygmut Bauman si può uscire dalla crisi solo passando da un modello incentrato sull’individuo a uno che si basi invece su un’esperienza etica ed estetica, privilegiando i rapporti umani ed il contesto. E’ da lì che può nascere un rinnovamento della politica, un nuovo umanesimo come auspicava Erich Fromm, non certo da false primarie con candidati  imposti e sostenuti o dai “tecnici dell’economia”. Da lì può rinascere la voglia di premiare il merito e non l’immagine, la voglia di farsi rappresentare da chi ha a cuore l’interesse collettivo e la voglia di servirlo.
                                                   

mercoledì 9 ottobre 2013

Speculazione Edilizia



Il CORRIERE DELLA SERA celebra i cinquant'anni dalla pubblicazione del romanzo di Italo Calvino Speculazione edilizia. Nel 1963 lo scrittore sanremese commentava, attraverso il personaggio Quinto Anfossi, la cementificazione della sua Liguria per far posto alle seconde case dei lombardi e dei piemontesi in una situazione di "bassa marea morale". Dopo cinquant'anni possiamo osservare che è andata anche peggio di come lui prevedeva e la bassa marea è continuata senza essere mai  seguita da quella alta come in natura. In pratica ormai la Liguria da Genova a Ventimiglia è un continuo urbanizzato, una città regione lineare, salvo rare interruzioni, che si estende per circa 150 chilometri. I caselli autostradali e le stazioni ferroviarie hanno mantenuto la cadenza degli antichi borghi marini ma di questi sono rimasti solo i nomi e pochi antichi edifici sommersi dalla marea ( per usare sempre la metafora marina) delle costruzioni venute su negli ultimi cinquant'anni, appunto. La città di Sanremo in particolare è stata presa d'assalto da costruttori senza scrupoli che ne hanno sfigurato il paesaggio così da renderlo omogeneo allo squallore di tutto l'edificato recente che invade il resto del territorio. E' sconfortante vedere che gli appelli di intellettuali di quegli anni, come Antonio Cederna o Bruno Zevi, oltre naturalmente allo stesso Calvino,  non siano serviti a nulla se non a richiamare l'attenzione su aree e paesaggi che poi sono diventati, per ironia, ancora più oggetto di rapina e distruzione. Ricordo un articolo di Bruno Zevi per l'Espresso su Ventimiglia  dove faceva il confronto fra quello che si era fatto in Italia vicino al confine e quello che invece avevano realizzato i francesi a pochi chilometri di distanza oltre la frontiera. Indubbiamente, pur mantenendo la stessa volumetria esagerata, permessa dalle varie amministrazioni che si sono succedute dal dopoguerra, si sarebbe potuto fare molto meglio, come hanno dimostrato i cugini d'oltralpe,  del museo degli orrori che si presenta al turista da Vallecrosia a Ventimiglia. Nessuno vuole negare il diritto di avere una casa vacanza ai villeggianti di varia provenienza ma una buona attenzione al suo inserimento nel contesto ambientale non l'avrebbe certo resa meno appetibile al mercato. Invece la generazione dei costruttori del cosidetto "bum economico" degli anni 50 e 60 ha considerato l'attenzione al contesto ed il fattore estetico come orpelli da eliminare per risparmiare tempo e guadagnare di più. La fretta indebita sta nel nostro modello economico e l'abbiamo sotto gli occhi ovunque in questa zona e non solo. Il frettoloso, il superficiale, l'eclatante è il frutto velenoso di questo modello.Ciò è sperimentabile in qualsiasi area urbanizzata di recente, salvo rare eccezioni: in particolare qui dove l'urbanizzazione è avvenuta sotto la spinta di interessi speculativi dovuti ai fenomeni delle mode di grande intensità ma di breve durata.
Il FAI, fondato nel 1975 con lo scopo di difendere il paesaggio italiano e che in questi anni annovera numerose battaglie vinte, afferma che in Italia, ancora oggi in piena crisi economica, vengono consumati dalla cementificazione 82 ettari al giorno, il che vuol dire che siamo ben lontani dall'esaurire la spinta verso il consumo di suolo a scopi edilizi cominciata nel dopoguerra.
Recentemente mi sono recato  in una località della Valle Seriana, in provincia di Bergamo, che frequentavo da bambino negli anni cinquanta alla quale ero molto affezionato per i campi di ranuncoli che fiorivano in estate, ho trovato al loro posto una miriade di villette di scadente fattura costruite negli ultimi venti anni. Lo scrittore- filosofo svizzero Alain De Botton nel suo libro Architetettura e felicità suggerisce un metodo per giudicare esteticamente un'architettura, la prova del campo:  quando si vede un'architettura si immagini al suo posto un campo fiorito, se lo si rimpiange allora è brutta. Quanta dell'edilizia degli ultimi cinquant'anni ci fa rimpiangere i campi.