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venerdì 16 agosto 2013

Delenda ars



Ho visitato le Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo a Milano e ne sono riemerso con la convinzione sempre più radicata che gli anni sessanta del secolo scorso segnino una sorta di degenerazione annunciata dell’arte. Confrontati con la pittura dell’ottocento e del primo novecento ci si chiede come è stata possibile una tale debacle che viene chiamata con vari appellativi suggeriti dai critici nel tentativo di sublimare una esasperata tendenza alla distruttività. La chiamavano avanguardia come se il futuro dell’arte fosse alla fine la negazione dell’arte stessa nel concettuale. Ora nelle ultime  tendenze si puo notare timidi ritorni al rapporto con la creatività della natura. Forse é il pensiero ecologico che ci salva.
A pensarci bene non esistono culture nel passato che avevano la pretesa di essere avanti e basta, nel futuro addirittura. Oggi ben lungi dal rivedere questo atteggiamento siamo aldilà dell’avanguardia, in questa corsa qualcuno dice sempre di essere più in là, cosi l’elemento provocatorio e innovativo ha sempre la meglio. E’ la concezione dell’arte che deve modificarsi: se ne accettiamo la definizione come la capacità di scoprire la dimensione magica della vita tutto cambia, non c’è un prima e un dopo. Nel passato nessuno era cosi’ presuntuoso, nè mai avrebbe osato affermare di essere sradicato dalla tradizione. Dalla concezione avanguardista moderna discendono tutte le degenerazioni degli artisti maledetti che pur di essere avanti perdono di vista la funzione dell’arte e dell’artista di ricondurre al nocciolo religioso e transpersonale in noi. E allora si parla di morte dell’arte come se fosse una funzione intercambiabile ma non è l’arte che è morta sono coloro che hanno perso il rispetto per la vita. L’arte invece, fin dalle origini, non è una funzione della vita ma la dimensione sacra di essa.
L’arte per i Greci era la teknè ovvero la capacità tecnica dell’artigiano di lavorare la materia sua propria, lo scultore il marmo e il bronzo, il pittore i pigmenti dei colori e cosi via: un insieme di regole che ordinavano un’attività umana tesa ad un risultato migliorativo della natura.  Aristotele affermava che finalità delle regole (etica) era la felicità. Per i Greci questa la si raggiungeva con l’eudemonia, un sogno estetico fatto di conoscenza dei propri bisogni e di dominio delle passioni, armonia che coincide con bellezza. Dunque il fine della teknè era la bellezza. L’arte gareggiava con la natura in estetica, anzi era superamento della natura determinato da una conoscenza approfondita di essa che, benchè piena di accidenti faceva intravedere il mondo perfetto delle idee nella concezione platonica.  E’ cosi che i Greci ad esempio scoprirono la sezione aurea, una legge naturale di sviluppo e accrescimento del vivente che essi utilizzarono nelle loro opere pensando di avere scoperto una regola di bellezza universale. Questa concezione dell’arte duro’ diversi secoli e cioè fino a quando nel XVIII° secolo essa si lega al gusto e diventa soggettiva. Agli inizi del XIX secolo il filosofo romantico Federich Schiller afferma essere l’arte attività che crea da se le sue regole per distinguerla dalla scienza che invece segue regole determinate e necessarie. Questo ha fatto si che si potesse affermare che ciascuno poteva fare quello che voleva e se, per un certo verso, cio’ ha liberato da certe dipendenze e rigidità della tradizione classicista per un altro verso ha dato l’avvio al disimpegno sociale dell’arte e all’arbitrio individualista più sfrenato dove viene valorizzato l’elemento innovativo e provocatorio in sè, ogni sorta di pulsione inconscia senza alcuna finalità se non quella di scandalizzare. Il Romanticismo poi, valorizzando le passioni e i sentimenti, pur liberando la fantasia, ha dato i presupposti per quelle degenerazioni che oggi sono sotto gli occhi di tutti e che si possono ammirare anche alla suddetta esposizione. Se nel campo della pittura e della scultura tutto questo, rafforzato dallo spirito dionisiaco e dalla volontà di potenza, ha avuto come conseguenza solo la riduzione dell’arte a fenomeno da psichiatria con le sue esibizioni di disagi interiori, nell’architettura invece ha inciso sull’aspetto della città e quindi sulla qualità della vita.
L’arte nell’ultimo secolo si è snaturata e il verbo non è usato a caso perchè ha cessato di essere in relazione con la natura, nel senso di un suo miglioramento a fini benefici per l’uomo.
Allora tutta l’arte contemporanea è da buttare? Certo che no, solo certa presunta tenendo presente la personalità dell’artista e la sua identità nel mondo di oggi dominato dai media e dal denaro. A volte è difficfile distinguere il folle dall’artista geniale perchè ambedue superano il mondo ordinario e sono ai confini della coscienza ma il primo si distingue per la presunzione e la violenza, il secondo per l’umiltà e la semplicità. Il primo si identifica con il proprio ego e pensa di essere un dio, il secondo si identifica con il Se e sa che non ha alcun merito in quello che riesce a fare ma lo fa perchè è il compito del proprio destino e cio’ gli dà felicità e unificazione. Ambedue nuotano nel mare dell’essere: il primo annega per presunzione, il secondo sa nuotare. Il filosofo russo Pavel Florenski, morto nei gulag stalinisti nel 1941, al proposito affermava che il primo sale al mondo invisibile e si porta dietro tutti i suoi fantasmi egocentrici perdendosi e credendo di essere un ispirato, il secondo sale al mondo ultrasensibile con umiltà, nudo, e ne ridiscende portandosi dietro le cose ineffabili di quel mondo.   Questa dovrebbe essere la discriminante per tenere o per buttare l’arte, dagli anni sessanta in poi, ma non è facile distinguere il vero dal falso in un ambito dove questa è stata finanziarizzata e a volte risulta solo essere un segno che pero’ vale denaro.

                                                                                                                                                 


domenica 11 agosto 2013

Casa dolce casa

Casa dolce casa


Quando si parla di architettura ed ecologia si parla principalmente di casa. Scrivevo nel 1992 nell’introduzione al mio libro “L’uomo, l’ambiente,la casa” che il pensiero ecologico ha investito tutta la cultura occidentale e le varie discipline, in primis l’architettura. Ogni tanto nella storia si presenta la necessità di cambiare il paradigma di partenza per una nuova interpretazione della realtà che permetta un migliore adattamanto ed uno scatto evolutivo. Di questi tempi (scrivevo) è l’approccio sistemico bioecologico che sembra essere la nuova opportunità in tutti i settori. L’architettura, intesa come attività teorica che sta dietro la trasformazione della natura da parte dell’uomo, è la disciplina più coinvolta da questa rivoluzione culturale. Vent'anni dopo possiamo dire che è  ancora vero? In parte si ma abbiamo potuto constatare che accanto alle rivendicazioni ambientaliste (molto spesso più di apparenza che di sostanza) vi è  un’economia di rapina che genera, come dicevo, monumenti a se stessa e crisi cicliche.  Prendiamo la casa che è dell’architettura moderna l’emblema: è si nata la casa bioecologica e la certificazione energetica ma si continua a costruire falansteri e grattacieli che di fatto contraddicono il suddetto paradigma. Il perchè di tutto questo, come abbiamo già esposto in precedenza, sta nella spaccatura che esiste ancora tra le aspirazioni all’armonia, a un nuovo rapporto con la natura, sentito come nostalgia delle origini, e la volontà di potenza che contraddistingue invece il mondo della finanza e delle tecnoscienze. Abitare è una condizione dell’esistere e quindi la casa risente di questi diversi approcci alla realtà. Dal 1988 ho realizzato corsi che intitolavo “La casa biologica” a distinguere questo bisogno di complessità organica  contro la proposta presuntuosa, anche di maestri dell’architettura moderna innamorati della tecnica, di rispondere a questa istanza abitativa con la semplificazione anoressica della grande dimensione. Il concetto di massa è un  prodotto del novecento dove l’individuo viene vissuto come numero senza qualità, uno nessuno centomila, e la casa come macchina. A nulla sono valse le verifiche sulla vita nei monumenti dell’architettura moderna, come ad esempio l’Unitèe d’abitation di Le Corbusier. Sul famoso esempio si è andati a costruire per case popolari megastrutture che sono diventate ghetti di mala-vita, in Italia sono arcinoti esempi il Corviale di Roma e le Vele di Napoli. Qualcuno suggeriva che gli architetti che progettano queste mostruosità dovrebbero essere obbligati ad abitarvi. Ma tornando all’esigenza di case si puo affermare che  nella nostra società liberista si risponde in diversi modi a seconda del censo. Tralasciando il grave problema di chi è rimasto senza lavoro e senza casa, messo in luce da un libretto prezioso di Marc Augè,”Diario di un senza fissa dimora”, rispondono a questa esigenza fondamentale le Società immobiliari, il mondo della cooperazione e lo Stato, attraverso i vari Istituti per le case popolari. Nonostante questo potente apparato la situazione del diritto alla casa non è mai stata cosi precaria: la crisi economica e l’immigrazione l’hanno resa drammatica.  Eppure malgrado il grande numero dei senza dimora, sempre in aumento, in Italia le statistiche  ci dicono che vi sono più di due vani per abitante. Come mai? La risposta stà nel fatto che il mattone è diventato un bene rifugio per gli investimenti finanziari e che esiste una fascia sociale che possiede più di una casa ed una fascia che non ne ha nemmeno una.  Le immobiliari insistono sul proporre case per una fascia medio alta che in questo momento non vuole acquistare, cosi si ha una notevole quantità di invenduto con palazzi vuoti. L’edilizia convenzionata delle cooperative registra nel campo della proprietà divisa uguale fenomeno poichè le banche hanno ristretto i mutui. Rimane l’edilizia sociale che fa riferimento alla fascia più povera e che in questo momento è formata principalmente dagli immigrati, questa è in crisi e non investe da anni avendo oltre tutto una insolvenza che raggiunge livelli molto alti. Cosi si ha una situazione paradossale in cui la fascia più punita é il ceto medio formato da giovani, impiegati, professionisti, intellettuali, insegnanti ecc. Cioé la parte migliore della società, la più colta e potenzialmente la più produttiva, quella con un livello di istruzione più elevato.Intanto la cementificazione continua e le proposte si fanno sempre più lontane da quella esigenza complessa di casa per la vita cui si accennava. La città infine è divisa per distretti stabiliti dal reddito ed è ben lontana da quel mix sociale che sembra costituire garanzia di buona-vita ai quartieri urbani ed anche gradevolezza estetica. Vi sono infine anche  tentativi di Housing sociale, soprattutto da parte di quegli enti, come le Fondazioni, che non hanno scopo di lucro, in genere sono frutto di una progettazione attenta a quelle domande di casa biologica cui si accennava ma questi per incidere sul mercato hanno bisogno di realizzare una massa critica che sono ben lungi dal raggiungere. In questo squallido panorama,  in cui tra l’altro sono aumentati del 50 % gli sfratti per morosità, le Banche e le grandi immobiliari  continuano a proporre soluzioni tecnologiche firmate per ricchi (per lo più stranieri) quando la domanda è da un’altra parte.