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venerdì 28 marzo 2014

Educazione artistica

Mentre la cultura del vecchio continente produce escrementi, in tutti i sensi in quanto esporta nel terzo mondo rifiuti tossici, la giovane weltanschauung africana produce capolavori. Ho già avuto modo nel mio libro Ecologia e Bellezza del 2004 ed. Alinea di definire l'artista come uno sciamano che aveva il compito di unire il mondo materiale con gli invisibili, questa del resto era la più antica concezione della sua funzione all'interno della comunità. In Africa e nei paesi del terzo mondo continua ad esserlo. Pavel Florenskij, il filosofo russo compatriota e contemporaneo di Wassily Kandinsky che per arrivare al suo astrattismo aveva fatto lunghi studi sulle popolazioni autoctone della Siberia e sul loro repertorio iconografico proprio per riuscire ad entrare nella veste dello sciamano,  come  ho già avuto modo di riferire, affermava che è difficile distinguere il folle dall' artista geniale, ambedue superano il mondo ordinario e sono ai confini della coscienza ma il primo sale al mondo invisibile e si porta dietro tutti i suoi fantasmi egocentrici perdendosi e credendo di essere un ispirato, il secondo sale al mondo ultrasensibile con umiltà, nudo, e ne ridiscende portandosi dietro cose ineffabili di quel mondo.  E' quello che possiamo dire nel primo caso per molti artisti europei degli ultimi sessant'anni a cominciare dai tagli di Fontana e dall'altra invece per i giovani artisti africani che partendo dalla loro cultura animista, attraverso l'uso del linguaggio simbolico,  totemico  e una tradizione artigianale raggiungono il livello del sacro. In effetti il vero artista  è un mistico. Il pittore del Togo Kikoko, qui sotto il link del suo sito dove si possono ammirare le immagini delle sue opere , è in questo senso emblematico. La sua pittura potrebbe definirsi astratta o surreale, usando categorie della tradizione culturale europea ma sono contrario a dare definizioni  che ingabbiano, si tratta in effetti di suggestive opere e la vera arte contiene la totalità. Questi lavori di grande impatto rievocano gli echi delle tradizioni africane, a cominciare dai richiami ai geroglifici egizi per finire con suggestive immagini piatte di forme animiche e organiche, che ci conducono al sentimento dell'appartenenza alla vita ed alla sua dimensione magica, le peak experience di Maslow, fuori dal tempo come si compete alla vera arte. Ma per raggiungere questi stati di coscienza  si deve essere disposti ad accedervi, a vedere la bellezza. Se non si è disponibili non la si vede. Bisogna avere l'animo aperto e gioioso. Sentirsi amati e amanti, parte di un tutto. Avere l'infinito nello spirito, essere fuori dal tempo nell'eterno presente. Ciò presuppone uno sforzo rieducativo che non molti sono disposti a fare, un lavoro di approfondimento che pochi mettono in atto in questa società superficiale del vecchio occidente, dell'abbondanza del superfluo e del consumo passivo. Andiamo allora a impararlo da quelle culture che lo fanno ancora.

4 commenti:

  1. Ho conosciuto Kikoko alla presentazione dell'ultimo libro di Maurizio, e lo sono andato a trovare nel suo laboratorio a Milano. Mi ha colpito un quadro, raffigurante all'apparenza una luminosità tondeggiante di vivido colore giallo. Alla domanda se quella pittura si collegasse in qualche modo a una religiosità animistica, mi ha risposto affermativamente, sì, effettivamente quella "macchia gialla" era una "visione", ciò che gli animisti conservano del mistero, non i sogni, non i simulacri, non il "verbum", affatto sconosciuto, ma la "visione".
    Lo dico a proposito di arte e cultura, e anche "mercato", perché Kikoko vive della sua arte. Accolgo di "cultura" il concetto di "modello di significati trasmesso storicamente, significati incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita" (Clifford Geertz - antropologo - Interpretazione di culture, il Mulino, 1998,113).
    E sempre a proposito di arte e cultura, o arte e architettura, appunto nel concetto geertziano da me accolto, ho notato nel libro di Maurizio la mancanza di cenni all'architettura piacentiniana, forse per giustificata rimozione, ma un'architettura di cui ho funzionalisticamente fruito per decenni frequentando il palazzo di giustizia di Milano (absit iniuria verbis!)

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    1. Non ho parlato dell'architettura piacentiniana perchè rientra in quel rapporto malato tra potere e architettura di cui parlo nella prima parte del mio libro. Piacentini era l'archistar dell'epoca fascista ed ha prodotto appunto monumenti al potere mescolando esigenze rappresentative con riferimenti storici relativi al periodo della romanità. Un miscuglio di boria, arroganza e presunzione che abusa della cultura in senso titanico. Ho già espresso altrove che il Palazzo di Giustizia di Milano dovrebbe essere senza rimpianto abbattuto per dare spazio ad esempio a un giardino, originariamente al suo posto vi era un convento. Si parla da decenni di città della giustizia ma si continua a mettere delle pezze all'attuale situazione come l'edificio costruito dietro sul terreno dell'Umanitaria che tra l'altro affitta già spazi agli uffici giudiziari. Ma tornando al palazzo si può dire che è quanto di peggio l'architettura ufficiale poteva produrre, tra l'altro già sottodimensinato alla sua inaugurazione e fù il prodotto di una

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    2. operazione di corruzione e di manipolazione di un concorso pubblico dove il vincitore era anche il giudice ed il proprietario della cava che forniva il marmo

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