Ho
visitato le Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo a Milano e ne sono
riemerso con la convinzione sempre più radicata che gli anni sessanta del
secolo scorso segnino una sorta di degenerazione annunciata dell’arte. Confrontati
con la pittura dell’ottocento e del primo novecento ci si chiede come è stata
possibile una tale debacle che viene chiamata con vari appellativi suggeriti
dai critici nel tentativo di sublimare una esasperata tendenza alla
distruttività. La chiamavano avanguardia come se il futuro dell’arte fosse alla
fine la negazione dell’arte stessa nel concettuale. Ora nelle ultime tendenze si puo notare timidi ritorni al
rapporto con la creatività della natura. Forse é il pensiero ecologico che ci
salva.
A
pensarci bene non esistono culture nel passato che avevano la pretesa di essere
avanti e basta, nel futuro addirittura. Oggi ben lungi dal rivedere questo
atteggiamento siamo aldilà dell’avanguardia, in questa corsa qualcuno dice
sempre di essere più in là, cosi l’elemento provocatorio e innovativo ha sempre
la meglio. E’ la concezione dell’arte che deve modificarsi: se ne accettiamo la
definizione come la capacità di scoprire la dimensione magica della vita tutto
cambia, non c’è un prima e un dopo. Nel passato nessuno era cosi’ presuntuoso,
nè mai avrebbe osato affermare di essere sradicato dalla tradizione. Dalla
concezione avanguardista moderna discendono tutte le degenerazioni degli
artisti maledetti che pur di essere avanti perdono di vista la funzione
dell’arte e dell’artista di ricondurre al nocciolo religioso e transpersonale
in noi. E allora si parla di morte dell’arte come se fosse una funzione
intercambiabile ma non è l’arte che è morta sono coloro che hanno perso il
rispetto per la vita. L’arte invece, fin dalle origini, non è una funzione
della vita ma la dimensione sacra di essa.
L’arte
per i Greci era la teknè ovvero la capacità tecnica dell’artigiano di lavorare
la materia sua propria, lo scultore il marmo e il bronzo, il pittore i pigmenti
dei colori e cosi via: un insieme di regole che ordinavano un’attività umana
tesa ad un risultato migliorativo della natura.
Aristotele affermava che finalità delle regole (etica) era la felicità.
Per i Greci questa la si raggiungeva con l’eudemonia, un sogno estetico fatto
di conoscenza dei propri bisogni e di dominio delle passioni, armonia che
coincide con bellezza. Dunque il fine della teknè era la bellezza. L’arte gareggiava
con la natura in estetica, anzi era superamento della natura determinato da una
conoscenza approfondita di essa che, benchè piena di accidenti faceva
intravedere il mondo perfetto delle idee nella concezione platonica. E’ cosi che i Greci ad esempio scoprirono la
sezione aurea, una legge naturale di sviluppo e accrescimento del vivente che
essi utilizzarono nelle loro opere pensando di avere scoperto una regola di
bellezza universale. Questa concezione dell’arte duro’ diversi secoli e cioè
fino a quando nel XVIII° secolo essa si lega al gusto e diventa soggettiva.
Agli inizi del XIX secolo il filosofo romantico Federich Schiller afferma essere
l’arte attività che crea da se le sue regole per distinguerla dalla scienza che
invece segue regole determinate e necessarie. Questo ha fatto si che si potesse
affermare che ciascuno poteva fare quello che voleva e se, per un certo verso,
cio’ ha liberato da certe dipendenze e rigidità della tradizione classicista
per un altro verso ha dato l’avvio al disimpegno sociale dell’arte e
all’arbitrio individualista più sfrenato dove viene valorizzato l’elemento
innovativo e provocatorio in sè, ogni sorta di pulsione inconscia senza alcuna
finalità se non quella di scandalizzare. Il Romanticismo poi, valorizzando le
passioni e i sentimenti, pur liberando la fantasia, ha dato i presupposti per
quelle degenerazioni che oggi sono sotto gli occhi di tutti e che si possono
ammirare anche alla suddetta esposizione. Se nel campo della pittura e della
scultura tutto questo, rafforzato dallo spirito dionisiaco e dalla volontà di
potenza, ha avuto come conseguenza solo la riduzione dell’arte a fenomeno da
psichiatria con le sue esibizioni di disagi interiori, nell’architettura invece
ha inciso sull’aspetto della città e quindi sulla qualità della vita.
L’arte
nell’ultimo secolo si è snaturata e il verbo non è usato a caso perchè ha
cessato di essere in relazione con la natura, nel senso di un suo miglioramento
a fini benefici per l’uomo.
Allora
tutta l’arte contemporanea è da buttare? Certo che no, solo certa presunta tenendo
presente la personalità dell’artista e la sua identità nel mondo di oggi
dominato dai media e dal denaro. A volte è difficfile distinguere il folle
dall’artista geniale perchè ambedue superano il mondo ordinario e sono ai
confini della coscienza ma il primo si distingue per la presunzione e la
violenza, il secondo per l’umiltà e la semplicità. Il primo si identifica con
il proprio ego e pensa di essere un dio, il secondo si identifica con il Se e sa
che non ha alcun merito in quello che riesce a fare ma lo fa perchè è il
compito del proprio destino e cio’ gli dà felicità e unificazione. Ambedue
nuotano nel mare dell’essere: il primo annega per presunzione, il secondo sa
nuotare. Il filosofo russo Pavel Florenski, morto nei gulag stalinisti nel
1941, al proposito affermava che il primo sale al mondo invisibile e si porta
dietro tutti i suoi fantasmi egocentrici perdendosi e credendo di essere un
ispirato, il secondo sale al mondo ultrasensibile con umiltà, nudo, e ne
ridiscende portandosi dietro le cose ineffabili di quel mondo. Questa
dovrebbe essere la discriminante per tenere o per buttare l’arte, dagli anni
sessanta in poi, ma non è facile distinguere il vero dal falso in un ambito
dove questa è stata finanziarizzata e a volte risulta solo essere un segno che
pero’ vale denaro.