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venerdì 30 settembre 2016

Ancora di periferie

                                            L'albero dei poeti, acquarello su carta 2011

Perchè è cosi difficile risanare le periferie? Come già esposto in un mio recente articolo è stata la prima rivoluzione industriale a generare i grandi agglomerati periferici, in Francia chiamati banlieues.Le fabbriche si sono stabilite fuori dalle mura della città storica ed hanno pompato manodopera, dalle campagne prima, dai paesi sottosviluppati e dal terzo mondo poi, che avendo necessità abitative ha obbligato amministratori e imprenditori a costruire case nel circondario. Quando le fabbriche si sono trasferite, nel processo di terziarizzazione della città, sono rimaste le case con i grandi buchi delle aree ex industriali. Queste abitazioni naturalmente non brillano per qualità e soprattutto spesso mancano delle infrastrutture necessarie che  l’amministrazione pubblica o i privati lasciano in sospeso per anni. E’ emblematica la questione dei problemi legati all’igiene edilizio nella fine ottocento in Inghilterra e da noi nella prima metà del secolo scorso.Molte volte questa situazione è durata per diverso tempo tanto da far crescere due o tre generazioni di abitanti in situazioni precarie. Questa realtà ha provocato e approfondito il solco che separava e separa i diseredati dai  privilegiati, ovvero i poveri dai ricchi, oggi in regime di globalismo e di sviluppo dei trasporti è più profonda la disuguaglianza fra periferia e centro di una stessa città che tra paesi diversi. Teniamo presente che ormai il termine “periferico”si applica a tutto cio’ che viene trascurato. Infatti la casualità e l’abbandono, oltre alla trascuratezza, sono lo stigma di queste conurbazioni dove regna il disprezzo per la vita comune. Plotino affermava che è brutto cio’ che la nostra anima trascura, cioè senza cura, è evidente dunque che le categorie del brutto le troviamo prevalentemente in periferia. Naturalmente cio’ non è sempre vero ma nell’immaginario comune è cosi. Ora per rendere il brutto bello occorrono primariamente da parte del soggetto pianificatore cura, attenzione e amore ma non è semplice in una popolazione abituata da sempre al brutto. La cura è qui intesa come esecuzione a regola d’arte, l’attenzione è il contrario di negligenza e disattenzione, nel nostro caso rispetto al sito e all’utenza, il risultato migliore essendo sempre quel manufatto che si potrebbe considerare come se fosse sempre esistito: cioè che finisce per arricchire e completare un luogo. Infine l’amore è quindi una volontà che inserisce il proprio fare in una finalità di benessere e rispetto per la vita. Queste qualità soggettive si sostanziano poi negli oggetti  in ordine, equilibrio, eleganza e coerenza. Vi pare che queste siano condizioni facilmente raggiungibili? A volte occorrono decenni per invertire la tendenza al degrado, non bastano interventi episodici calati dall’alto e nemmeno abbattimenti a volte necessari. Torno a ripetere quanto affermato in un mio precedente scritto e nel mio libro, “L’altro architetto”, che la presenza del verde, nel senso di giardini ben curati, alberi, fiori ed elementi vegetali puo’ aiutare a invertire la tendenza al degrado perchè la loro bellezza, frutto della cura, è fortemente contagiosa, come anche curare l’arredo urbano che denota ordine e presenza dell’autorità, senza considerare il risanamento delle case i cui abitanti sono affetti da sick building sindrome, sindrome da edificio malato, pare che il 20% del patrimonio immobiliare italiano sia costruito con materiali che creano questo problema. Senza fare i soliti proclami di interventi magniloquenti da affidare al solito archistar di turno cominciamo da qui. 

Queste note sono tratte dal libro L'altro architetto che verrà ripresentato il 7 ottobre ore 17 a Bordighera  all'Istituto internazionale di Studi Liguri via Romana 39