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sabato 6 agosto 2016

Guerra di religione?

                                       Grimaldi, confine italo-francese, acquarello su carta.

Oggi il Corriere della Sera riporta un articolo di Antonio Polito dove si afferma che gli atti terroristici dei fondamentalisti dell’Isis sono una guerra di religione contrariamente a quanto afferma Papa Franncesco che dice essere una guerra a episodi ma non di religione. Personalmente ritengo che abbia ragione il Pontefice. Bisogna infatti analizzare il significato di religioso e di religione. I vocaboli derivano da religo che in latino significa legare insieme, unificare, ho affermato in altro contesto l’uomo essere animale religioso, cioè sempre alla ricerca di unità e trascendenza, religione è l’insieme delle pratiche e dei riti per soddisfare questi bisogni. Le religioni, a volte, legandosi con il potere strumentalizzano cio’ ai fini del dominare.  Questo giustificherebbe l’affermazione di Marx che la religione è l’oppio dei popoli ma esiste un fondamentale sentimento dell’animo umano anche per chi si dichiara laico o ateo. Non necessariamente si è religiosi perchè si aderisce a una fede o a un credo. L’uomo religioso è l’uomo profondo, quello che va aldilà delle contingenze del mondo. “Vi do la pace, la mia pace, non come la da il mondo” è un’affermazione evangelica che traduce bene il senso di tutto questo. L’uomo religioso, che aderisca o no a una religione, non puo’ essere un uomo di guerra. Dunque ne consegue che la guerra non è di religione. La guerra è una folle conseguenza del desiderio di potere, non puo’ essere di religione ma puo’ essere uno scontro tra due Fedi, quando queste sono  superficialmente prese come giustificazione al nostro dualismo e dicotomia di pensiero e alla nostra esigenza di dominio. Dio allora è una proiezione del nostro odio e desiderio di vendetta verso chi abbiamo scelto come nemico perchè si oppone alla nostra mania di grandezza e di potenza. Hillman giustamente osservava che dopo Auschwitz il Dio dell’Antico testamento era morto. Ora pare che sia risorto con l’Isis  

domenica 13 aprile 2014

Giovani senza lavoro

Rilevo dai giornali questo dato: il 47% dei giovani è disoccupato. Spero che questo risulti solo per i giovani che non hanno un posto fisso perchè altrimenti la situazione sarebbe oltremodo drammatica. Non tanto per la mancanza di guadagno e quindi impoverimento delle famiglie d'origine, che sarebbe già grave, quanto per il potenziale di psicopatologie che una situazione del genere provoca: un serbatoio di rabbia, di scontento e di risentimenti pronto ad esplodere in mille forme ad ogni occasione ed  impedire comunque una vita democratica creativa fatta di riforme serie. In genere nella nostra cultura parliamo del lavoro come problema economico o giuridico ma questa è una visione limitata e riduttiva del problema. Esiste anche una dimensione psicologica e umana che non va sottovalutata. I Costituenti affermando che "l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro", art. 1 della Costituzione, evidentemente ne avevano ben chiara l'importanza sul piano umanistico. Il lavoro non è soltanto fatica, e quindi un dovere, in una società dove i ricchi non lavorano, non è il contrario del piacere e del divertimento, è invece l'attività che ti fa sentire vivo e partecipe, integrato nella società. Il lavoro ti dà la misura del tuo valore, l'impressione di contare perchè contribuisci alla costruzione del mondo. Certo c'è lavoro e lavoro, dopo la rivoluzione industriale quello operaio è diventato ripetitivo e alienante, oggetto di sfruttamento da parte del capitale come affermava Marx, ma pur anche perdendo i connotati del lavoro creativo dell'artigiano tuttavia era un modo per sentirsi utile, anche se sfruttato.Vi è quindi una condizione peggiore di quella di essere sfruttato, secondo il canone marxista, ed è quella di non esserlo per nulla. E' chiaro che nella società vi sono diversi livelli di attività, la bellezza sta proprio nella diversità, si va dalle attività che riguardano i bisogni primari del corpo fino a quelli dello spirito. Una società democratica sana prevede una mobilità sociale, ovvero i talenti giusti al posto giusto senza distinzione di classe ma per merito e competenza. Naturalmente non si può pretendere che ciò avvenga in maniera perfetta ed automatica ma almeno che ci sia questa aspirazione e dunque non esistano privilegi di casta. L'istruzione pubblica a questo dovrebbe servire: a pareggiare le sorti di coloro che vengono dal basso, i cosidetti "diseredati" usando un'espressione cara a Mosè Loria fondatore della Società Umanitaria, di cui quest'anno ricorre il bicentenario della nascita, e che appunto aveva devoluto il suo patrimonio per dare educazione e formazione a chi non se lo poteva permettere alla fine del XIX secolo. Invece in Italia assistiamo, soprattutto in momenti di crisi, ad una svalutazione continua del settore dell'istruzione e della cultura,  specialmente  professionale. Infatti che andiamo a raccontare agli allievi se li prepariamo a ricoprire incarichi che non ci sono? Osserviamo invece un irrigidimento della situazione  ed una chiusura degli accessi verso l'alto in favore di un familismo amorale che blocca la mobilità. Rimangono i mestieri e le professioni servili che vengono coperti dagli immigrati che sono disposti  a tutto. Ai nostri giovani, ai quali abbiamo dato un'istruzione nella speranza di un mondo migliore, che rimane?