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martedì 3 settembre 2013

Pacifismo ai tempi della guerra in Siria


Appena finita la guerra la mia famiglia era ancora sfollata in montagna, nella bergamasca. Avevo 3 o 4 anni e abitavamo una villa con un grande giardino. Una notte, nel campo di fronte al nostro cancello, al di la del viale di tigli, si sentirono delle urla, così mi dissero perché a quell'etá il sonno è profondo e non ricordo di averle sentite. Era inverno e c'era la neve che si stava scogliendo sul prato. Il mattino dopo mio padre mi portò con se a vedere cosa era successo. Attraversammo il campo in direzione di un gruppetto di persone che sostavano guardando a terra. Quando arrivammo ci accorgemmo di una grande macchia rossa nella neve. Avevano nella notte ucciso un uomo, pare un "fascista" che andava a trovare la moglie nel vicino sanatorio. Una vendetta di qualche presunto "partigiano" che non aveva deposto le armi. L'avevano ammazzato a calci e per terra, dopo che lo avevano portato via con un carretto, erano rimasti i denti rotti e il sangue. Perché raccontare questo aneddoto, vi chiederete? Perché credo che questo episiodio sia stato il mio primo contatto con un delitto assurdo, la banalitá del male e abbia segnato indelebilmente la mia sensibilitá. Da li è sorto il mio rifiuto della violenza e della guerra. Ma essere pacifista non è un problema da poco, i mass media ci rimandano in tempo reale le immagini di questi bambini siriani che assistono quotidianamente ai massacri della guerra civile. Diventaranno pacifisti? Non credo. Solo se saranno capaci di dominare la rabbia e la paura. Non è un compito facile e quindi la maggior parte saranno dominati dallo spirito di vendetta che fará di loro i fautori di altri conflitti. Questa è la turpe ereditá della guerra: creare i presuposti psicologici per altre guerre. Hilmann affermava che vi è "un terribile amore per la guerra", diventato poi il titolo di uno dei suoi ultimi libri. Estirpare questo archetipo è pressoché impossibile se non lo riconosciamo come tale. Ma noi viviamo in una societá organizzata su modelli che esaltano il conflitto. I valori che respiriamo fin dall'infanzia esaltano le virtu belliche che ritroviamo anche nella vita civile. Fino a non molto tempo fa, ancora oggi in provincia, il maschio si identificava con la divisa che in gioventù aveva indossato da militare. L'economia esalta la competitivitá con un linguaggio da guerra, conquiste di mercati, vittorie, sconfitte, combattimenti e il dio denaro regna sovrano. Le guerre hanno sempre dei risvolti economici, chi lucra sulla rabbia e la paura? L'opinione pubblica viene manipolata usando ad arte i mezzi di comunicazione di massa per provocare lo sdegno necessario per giustificare la guerra. Si parla infatti di guerra di immagini e della propaganda ma è su questo fondamento di aggressivitá, generato dalla paura e dalla rabbia, che poggia la morale publica che la promuove. Come per il dilemma siriano, Tolstoj si interrogava sulla moralitá di intervenire in un conflitto attraverso il suo personaggio Levin in Anna Karenina: "se tu vedi uno che assale una donna o un bambino che fai? Non intervieni?" Risposta: " Si ma questa è una mia scelta persoale per difendere il più debole e non per uccidere." Gli stati invece quando decidono di entrare in una guerra, da una parte o dall'altra, sanno che rilasciano licenza di uccidere come del resto lo sanno i produttori di armi che vendono ai contendenti. Bisognebbe denunciare e punire le banche che si prestano a questi trasferimenti di denaro come per il riciclo di origine mafiosa. Colpisci chi specula e guadagna con la guerra e toglierai di mezzo molte fonti che la alimentano. Veniamo ora al punto dolente della guerra siriana, dell'uso dei gas e dei bambini uccisi o resi orfani. La comunitá internazionale deve intervenire o no? A parere mio non si migliora la situazione aggiungendo della violenza alla violenza e aumentendo il substrato di paura e di rabbia. La guerra è un fuoco che si alimenta con le rivendicazioni, le vendette e le punizioni. Gli esempi della storia, anche recente, sono li a dimostrarlo. La follia si disarma con la pacatezza, la saggezza e la calma. Con il passaggio da un pensiero dicotomico ad un pensiero sistemico. Kant indicava due strade per la pace perpetua. Una è quella di un organismo di diritto internazionale riconosciuto che giudichi le cause fra stati, ed ora c'è l'ONU. La seconda è l'abolizione degli eserciti permanenti, ovvero la smilitarizazzione della societá e della cultura. Questa è ancora di là da venire e riguarda tutti, è una nuova cultura che coinvolge anche l'economia: altro che missili per operazioni chirurgiche. "La bellezza salverá il mondo" diceva il principe Miskin nell'Idiota di Dostoevskj, Hillmann diceva la stessa cosa in modo diverso, ma quale bellezza vi è nei missili che esplodendo producono altre macerie e morti oltre a quelli che giá ci sono? Diamo il mondo ai poeti e salveremo la terra. 

venerdì 16 agosto 2013

Delenda ars



Ho visitato le Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo a Milano e ne sono riemerso con la convinzione sempre più radicata che gli anni sessanta del secolo scorso segnino una sorta di degenerazione annunciata dell’arte. Confrontati con la pittura dell’ottocento e del primo novecento ci si chiede come è stata possibile una tale debacle che viene chiamata con vari appellativi suggeriti dai critici nel tentativo di sublimare una esasperata tendenza alla distruttività. La chiamavano avanguardia come se il futuro dell’arte fosse alla fine la negazione dell’arte stessa nel concettuale. Ora nelle ultime  tendenze si puo notare timidi ritorni al rapporto con la creatività della natura. Forse é il pensiero ecologico che ci salva.
A pensarci bene non esistono culture nel passato che avevano la pretesa di essere avanti e basta, nel futuro addirittura. Oggi ben lungi dal rivedere questo atteggiamento siamo aldilà dell’avanguardia, in questa corsa qualcuno dice sempre di essere più in là, cosi l’elemento provocatorio e innovativo ha sempre la meglio. E’ la concezione dell’arte che deve modificarsi: se ne accettiamo la definizione come la capacità di scoprire la dimensione magica della vita tutto cambia, non c’è un prima e un dopo. Nel passato nessuno era cosi’ presuntuoso, nè mai avrebbe osato affermare di essere sradicato dalla tradizione. Dalla concezione avanguardista moderna discendono tutte le degenerazioni degli artisti maledetti che pur di essere avanti perdono di vista la funzione dell’arte e dell’artista di ricondurre al nocciolo religioso e transpersonale in noi. E allora si parla di morte dell’arte come se fosse una funzione intercambiabile ma non è l’arte che è morta sono coloro che hanno perso il rispetto per la vita. L’arte invece, fin dalle origini, non è una funzione della vita ma la dimensione sacra di essa.
L’arte per i Greci era la teknè ovvero la capacità tecnica dell’artigiano di lavorare la materia sua propria, lo scultore il marmo e il bronzo, il pittore i pigmenti dei colori e cosi via: un insieme di regole che ordinavano un’attività umana tesa ad un risultato migliorativo della natura.  Aristotele affermava che finalità delle regole (etica) era la felicità. Per i Greci questa la si raggiungeva con l’eudemonia, un sogno estetico fatto di conoscenza dei propri bisogni e di dominio delle passioni, armonia che coincide con bellezza. Dunque il fine della teknè era la bellezza. L’arte gareggiava con la natura in estetica, anzi era superamento della natura determinato da una conoscenza approfondita di essa che, benchè piena di accidenti faceva intravedere il mondo perfetto delle idee nella concezione platonica.  E’ cosi che i Greci ad esempio scoprirono la sezione aurea, una legge naturale di sviluppo e accrescimento del vivente che essi utilizzarono nelle loro opere pensando di avere scoperto una regola di bellezza universale. Questa concezione dell’arte duro’ diversi secoli e cioè fino a quando nel XVIII° secolo essa si lega al gusto e diventa soggettiva. Agli inizi del XIX secolo il filosofo romantico Federich Schiller afferma essere l’arte attività che crea da se le sue regole per distinguerla dalla scienza che invece segue regole determinate e necessarie. Questo ha fatto si che si potesse affermare che ciascuno poteva fare quello che voleva e se, per un certo verso, cio’ ha liberato da certe dipendenze e rigidità della tradizione classicista per un altro verso ha dato l’avvio al disimpegno sociale dell’arte e all’arbitrio individualista più sfrenato dove viene valorizzato l’elemento innovativo e provocatorio in sè, ogni sorta di pulsione inconscia senza alcuna finalità se non quella di scandalizzare. Il Romanticismo poi, valorizzando le passioni e i sentimenti, pur liberando la fantasia, ha dato i presupposti per quelle degenerazioni che oggi sono sotto gli occhi di tutti e che si possono ammirare anche alla suddetta esposizione. Se nel campo della pittura e della scultura tutto questo, rafforzato dallo spirito dionisiaco e dalla volontà di potenza, ha avuto come conseguenza solo la riduzione dell’arte a fenomeno da psichiatria con le sue esibizioni di disagi interiori, nell’architettura invece ha inciso sull’aspetto della città e quindi sulla qualità della vita.
L’arte nell’ultimo secolo si è snaturata e il verbo non è usato a caso perchè ha cessato di essere in relazione con la natura, nel senso di un suo miglioramento a fini benefici per l’uomo.
Allora tutta l’arte contemporanea è da buttare? Certo che no, solo certa presunta tenendo presente la personalità dell’artista e la sua identità nel mondo di oggi dominato dai media e dal denaro. A volte è difficfile distinguere il folle dall’artista geniale perchè ambedue superano il mondo ordinario e sono ai confini della coscienza ma il primo si distingue per la presunzione e la violenza, il secondo per l’umiltà e la semplicità. Il primo si identifica con il proprio ego e pensa di essere un dio, il secondo si identifica con il Se e sa che non ha alcun merito in quello che riesce a fare ma lo fa perchè è il compito del proprio destino e cio’ gli dà felicità e unificazione. Ambedue nuotano nel mare dell’essere: il primo annega per presunzione, il secondo sa nuotare. Il filosofo russo Pavel Florenski, morto nei gulag stalinisti nel 1941, al proposito affermava che il primo sale al mondo invisibile e si porta dietro tutti i suoi fantasmi egocentrici perdendosi e credendo di essere un ispirato, il secondo sale al mondo ultrasensibile con umiltà, nudo, e ne ridiscende portandosi dietro le cose ineffabili di quel mondo.   Questa dovrebbe essere la discriminante per tenere o per buttare l’arte, dagli anni sessanta in poi, ma non è facile distinguere il vero dal falso in un ambito dove questa è stata finanziarizzata e a volte risulta solo essere un segno che pero’ vale denaro.

                                                                                                                                                 


domenica 11 agosto 2013

Casa dolce casa

Casa dolce casa


Quando si parla di architettura ed ecologia si parla principalmente di casa. Scrivevo nel 1992 nell’introduzione al mio libro “L’uomo, l’ambiente,la casa” che il pensiero ecologico ha investito tutta la cultura occidentale e le varie discipline, in primis l’architettura. Ogni tanto nella storia si presenta la necessità di cambiare il paradigma di partenza per una nuova interpretazione della realtà che permetta un migliore adattamanto ed uno scatto evolutivo. Di questi tempi (scrivevo) è l’approccio sistemico bioecologico che sembra essere la nuova opportunità in tutti i settori. L’architettura, intesa come attività teorica che sta dietro la trasformazione della natura da parte dell’uomo, è la disciplina più coinvolta da questa rivoluzione culturale. Vent'anni dopo possiamo dire che è  ancora vero? In parte si ma abbiamo potuto constatare che accanto alle rivendicazioni ambientaliste (molto spesso più di apparenza che di sostanza) vi è  un’economia di rapina che genera, come dicevo, monumenti a se stessa e crisi cicliche.  Prendiamo la casa che è dell’architettura moderna l’emblema: è si nata la casa bioecologica e la certificazione energetica ma si continua a costruire falansteri e grattacieli che di fatto contraddicono il suddetto paradigma. Il perchè di tutto questo, come abbiamo già esposto in precedenza, sta nella spaccatura che esiste ancora tra le aspirazioni all’armonia, a un nuovo rapporto con la natura, sentito come nostalgia delle origini, e la volontà di potenza che contraddistingue invece il mondo della finanza e delle tecnoscienze. Abitare è una condizione dell’esistere e quindi la casa risente di questi diversi approcci alla realtà. Dal 1988 ho realizzato corsi che intitolavo “La casa biologica” a distinguere questo bisogno di complessità organica  contro la proposta presuntuosa, anche di maestri dell’architettura moderna innamorati della tecnica, di rispondere a questa istanza abitativa con la semplificazione anoressica della grande dimensione. Il concetto di massa è un  prodotto del novecento dove l’individuo viene vissuto come numero senza qualità, uno nessuno centomila, e la casa come macchina. A nulla sono valse le verifiche sulla vita nei monumenti dell’architettura moderna, come ad esempio l’Unitèe d’abitation di Le Corbusier. Sul famoso esempio si è andati a costruire per case popolari megastrutture che sono diventate ghetti di mala-vita, in Italia sono arcinoti esempi il Corviale di Roma e le Vele di Napoli. Qualcuno suggeriva che gli architetti che progettano queste mostruosità dovrebbero essere obbligati ad abitarvi. Ma tornando all’esigenza di case si puo affermare che  nella nostra società liberista si risponde in diversi modi a seconda del censo. Tralasciando il grave problema di chi è rimasto senza lavoro e senza casa, messo in luce da un libretto prezioso di Marc Augè,”Diario di un senza fissa dimora”, rispondono a questa esigenza fondamentale le Società immobiliari, il mondo della cooperazione e lo Stato, attraverso i vari Istituti per le case popolari. Nonostante questo potente apparato la situazione del diritto alla casa non è mai stata cosi precaria: la crisi economica e l’immigrazione l’hanno resa drammatica.  Eppure malgrado il grande numero dei senza dimora, sempre in aumento, in Italia le statistiche  ci dicono che vi sono più di due vani per abitante. Come mai? La risposta stà nel fatto che il mattone è diventato un bene rifugio per gli investimenti finanziari e che esiste una fascia sociale che possiede più di una casa ed una fascia che non ne ha nemmeno una.  Le immobiliari insistono sul proporre case per una fascia medio alta che in questo momento non vuole acquistare, cosi si ha una notevole quantità di invenduto con palazzi vuoti. L’edilizia convenzionata delle cooperative registra nel campo della proprietà divisa uguale fenomeno poichè le banche hanno ristretto i mutui. Rimane l’edilizia sociale che fa riferimento alla fascia più povera e che in questo momento è formata principalmente dagli immigrati, questa è in crisi e non investe da anni avendo oltre tutto una insolvenza che raggiunge livelli molto alti. Cosi si ha una situazione paradossale in cui la fascia più punita é il ceto medio formato da giovani, impiegati, professionisti, intellettuali, insegnanti ecc. Cioé la parte migliore della società, la più colta e potenzialmente la più produttiva, quella con un livello di istruzione più elevato.Intanto la cementificazione continua e le proposte si fanno sempre più lontane da quella esigenza complessa di casa per la vita cui si accennava. La città infine è divisa per distretti stabiliti dal reddito ed è ben lontana da quel mix sociale che sembra costituire garanzia di buona-vita ai quartieri urbani ed anche gradevolezza estetica. Vi sono infine anche  tentativi di Housing sociale, soprattutto da parte di quegli enti, come le Fondazioni, che non hanno scopo di lucro, in genere sono frutto di una progettazione attenta a quelle domande di casa biologica cui si accennava ma questi per incidere sul mercato hanno bisogno di realizzare una massa critica che sono ben lungi dal raggiungere. In questo squallido panorama,  in cui tra l’altro sono aumentati del 50 % gli sfratti per morosità, le Banche e le grandi immobiliari  continuano a proporre soluzioni tecnologiche firmate per ricchi (per lo più stranieri) quando la domanda è da un’altra parte.                    

lunedì 29 luglio 2013

ecologia e bellezza

Ecologia e bellezza 1

Il precedente articolo ha suscitato numerosi interrogativi sulla bellezza in architettura e in generale sul concetto stesso. Ci chiediamo che cosa significhi oggi e perchè quello che ci sembrava bello, ad esempio, negli anni cinquanta oggi ci appare sempre più brutto.  Il pensiero ecologico ci viene in soccorso e ci dà nuove certezze anche nei giudizi estetici, tanto aleatori. E' la crisi dei concetti di sviluppo e progresso che ci soccorre.

Almeno dalla fine del XVIII secolo la fiducia nel progresso umano ha sempre sostenuto le ideologie che si sono succedute in Occidente, l'idea di progresso si è poi legata agli sviluppi straordinari della scienza e della tecnica per cui si è insediata nella cultura occidentale la convinzione che da una generazione all'altra ci sarebbe sempre stato un miglioramento delle condizioni di vita. Questo credo nel futuro ha avuto il suo acme nel periodo immediatamente precedente la prima Guerra Mondiale anche nell'arte con il Movimento Futurista che esaltava l'industria, la velocità e la tecnica, i suoi mezzi meccanici e vedeva la guerra come "igiene del mondo".  Ma anche dopo, nonostante le due tragiche esperienze delle guerre mondiali, non ha mai cessato di sostenere le due principali ideologie politiche del 900, quella comunista e quella liberale. Solo a partire dagli anni settanta si è fatto strada, anche a livello degli economisti il concetto di sviluppo sostenibile e contemporaneamente il timore che le risorse potevano esaurirsi nel breve periodo di due generazioni. Questa è la sostenibilità di cui si parla oggi. Naturalmente come la fiducia illimitata nelle tecnoscienze ha prodotto un’estetica anche questa ecosofia produce una sua estetica. Si rimette in discussione il rapporto tra artificio e natura. Che nel caso dell’architettura significa rivedere il rapporto con il luogo: si va da una topofobia ad una topofilia. Voglio dire che nasce cosi una rinnovata attenzione a quello che si rischia di perdere per sempre e cioè il paesaggio. Si rinnova anche un certo interesse ai valori umani e questo cambia anche il nostro giudizio estetico: quello che prima appariva bello perchè generava ammirazione per la volontà di potenza e le possibilità della tecnica ora ci appare incombente e pericoloso per la nostra salute e per quella del pianeta. La bellezza di un edificio risulta essere quindi una delicata alchimia tra la capacità professionale di chi lo ha progettato e costruito, con cura e attenzione al contesto ambientale e umano, e la capacità di chi fruisce di mettersi in uno stato contemplativo che permette di percepire questa attenzione alla vita. Ma questa condizione dei soggetti non puo generarsi che in condizioni particolari di pienezza del vivere e soprattutto di gioia, emozione che passa attraverso l’individuazione e l’appartenenza ed è messa in fuga dal titanismo incombente imposto dal di fuori. Nel mondo globalizzato abbiamo internazionalizzato un modo di fare architettura che vuole fare soltanto marketing al potere del denaro e questo a una sensibilità ecologica non puo apparire bello. L’internazionalismo in architettura vi è sempre stato. Si puo notare che nella storia si alternano momenti di chiusura e momenti di apertura, durante questi ultimi l’architettura regionale arriva a confrontarsi con una tendenza internazionale che la influenza in un dialogo che arricchisce. L’attuale globalismo architettonico senza qualità, provocatorio e sterile, con la potenza dei media e dei tempi ridotti dalla tecnologia non vuole dialogare con un contesto tradizionale e una cultura locale ma vuole dominare e sovrapporsi. Cosi abbiamo il fenomeno di grandi studi che progettano al di là dell’oceano o in paesi lontani senza aver mai visitato fisicamante il luogo ed averne respirato il genius loci. In questo modo non nasce uno stile, che é appunto l’espressione di una cultura che necessita di tempo per essere assorbita, ma si ha solo un fenomeno di colonialismo culturale mediatico che determina impoverimento e omologazione. Infatti si progetta e si costruisce allo stesso modo a Koala Lampur come a Milano o a New York. Se andiamo avanti cosi avremo gli stessi non luoghi in tutto il globo. 

martedì 16 luglio 2013

il Gratta cielo

Il settimanale Sette del Corriere della Sera in data 14 giugno riporta un'intervista al solito Renzo Piano  che appare in copertina, come una star, con un'aria di falsa modestia  sentenziando che forse stiamo esagerando con i grattacieli. Senti chi parla, direbbe qualcuno. Infatti nel contempo difende ovviamente la sua Scheggia di Londra, edificio di oltre 300 metri, la costruzione più alta d'Europa. Afferma inoltre che l'architetto deve essere come un "sensore" che interpreta i cambiamenti della società. Viene da sorridere perché questa definizione in tutta la sua retorica fa invece trasparire quella più volgare che definisce l'architetto la puttana del Potere e suo compito sarebbe quello di interpretare le voglie del cliente. Infatti i grattacieli si fanno con i soldi e ce ne vogliono tanti per costruirli, oggi la tecnologia permette anche grandi altezze, impensabili fin agli anni sessanta, come a Dubai e in Cina, è solo una questione di denaro e questo è concentrato in poche mani che, sia nel mondo occidentale sia nei paesi emergenti, determinano le scelte urbanistiche e architettoniche. Allora si pone inevitabile la domanda: l'architettura la fa il committente o l'architetto? Da sempre l'architettura è un mass-media del potere, ne è la metafora, come ho già avuto modo di scrivere in un mio precedente articolo, dunque segue le stesse leggi. Abbiamo recentemente assistito a una sterile disputa tra Gregotti e Liberskind dove quest'ultimo accusava il primo di progettare per i regimi autoritari come la Cina e questi gli rispondeva piccato che lui invece era al servizio della grande finanza globalizzata. Botta e risposta che nascondono la crisi dell'architetto che vorrebbe essere demiurgo e invece non è che  "servo dei padroni", per usare un'espressione cara al sessantotto ma ormai dimenticata. Dunque un potere arrogante che vuole influenzare i media e incutere riverenza e timore non può che aspirare e stupire con la sfida tecnologica fregandosene del benessere dell'abitante. Ho in pubblicazione un mio libretto dove mi sono sforzato di mostrare che quando la bellezza, sia pure relativa alla propria epoca, ha cessato di essere considerata un bisogno fondamentale dell'uomo si è manifestata la produzione di ogni sorta di provocazioni dettate dall'esigenza di stupire più che di accogliere. Tornando ai grattacieli, sono la dimostrazione del teorema accennato e fintanto che un potere spocchioso e arrogante, sganciato dal territorio, avrà mano libera nella trasformazione urbana avremo questi segni evidenti della sua tracotanza, non reggono le giustificazioni pseudo urbanistiche di risparmio del suolo contro l'espansione a macchia d'olio della città anche perché questi mostri sacri in generale non risolvono il problema di dare una casa alle masse dei diseredati, invece  accolgono uffici di rappresentanza o case per ricchi esibizionisti. Dopo il disastro delle torri gemelle qualcuno aveva detto che il grattacielo era finito, invece si è continuato a costruirne in tutto il mondo e questo dimostra che ai poteri forti non interessano i segni del destino. Comunque qui si ricorda, per chi se lo scordasse, che la forma delle città si decide nelle giunte comunali, almeno da noi, e dunque sono queste, cioè la politica, che dovrebbe porre un freno allo strapotere dei soldi. A Milano l'amministrazione Albertini è stata una specie di Federico Barbarossa che ha stravolto lo skyline della città e la sua identità dando il via libera alla grande speculazione dei gruppi bancari. Il logo di Unicredit sulla "guglia" di Porta Nuova ce lo rammenta in ogni momento. E' vero, come dice Piano nell'intervista citata, che per l'architettura ci vogliono i tempi lunghi e che prima o poi anche queste trasformazioni verranno metabolizzate, salvo i casi, ormai numerosi, di edifici  che dopo qualche decennio diventano ecomostri vuoti da abbattere, tuttavia il costo per la comunità è troppo alto in termini di disagi urbani, non ultimo quello della congestione del traffico, mille abitanti concentrati in un edificio producono circa mille automobili in circolazione, alla faccia di qualsiasi Area C, e per favore non mi si parli di grattacieli ecologici che migliorerebbero l'inquinamento. L'attuale amministrazione risulta essere troppo timida di fronte alle pretese degli speculatori, vedi Citylife e Cerba. Come si diceva tempo fa in uno dei miei convegni, La città dei cittadini, a Milano operano due urbanistiche: una legata ai poteri che hanno costruito la città rendendola invivibile e  che vogliono disegnarne un futuro appariscente aumentando ancor più i problemi di sostenibilità, l'altra che vi si contrappone e che vorrebbe ridisegnare una città più umana. Questa seconda è alternativa sia nelle idee sia nelle forze che la reggono. Le sue radici stanno nei comitati, nelle comunità, nelle cooperative, nei consorzi, nei sindacati e nelle associazioni democratiche della società civile, tuttavia fatica a incidere sulle decisioni generali se non è sostenuta da quei politici ancorché eletti con i suoi voti.

Maurizio Spada