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lunedì 21 ottobre 2013

politica della bellezza


Trattare di bellezza non è una evasione dalla politica come sembrerebbe ad alcuni. Parlare di politica della bellezza sembra un ossimoro, un mettere a confronto due contrari: il brutto e il bello, visto l'indice di gradimento mai così basso della politica nostrana. Tuttavia l’uomo è un essere politico dove con questo termine si intende il contesto di interrelazioni che lo legano ai suoi simili. Da questo punto di vista tutto è politica, parafrasando James Hillman il sé è politico e, accettando il valore dell’etimologia dove polis è la città, il governo di questa dovrebbe tendere a renderla bella il più possibile. Tra parentesi per i Greci, dai quali abbiamo imparato la civiltà, l’esercizio delle virtù civili aveva come scopo la felicità che per loro coicideva con la bellezza, un sogno etico ed estetico insieme che  duemila anni dopo fece dire a Stendhal che la bellezza è una promessa di felicità. Seguendo questo ragionamento ed osservando che la grande rimozione del secolo scorso è proprio stata la bellezza si potrebbe dire che cercandola  si risana anche la politica o anche che una buona politica cerca la bellezza.
Credo che se ai tre principi fondamentali  della rivoluzione francese,  che ha influenzato le democrazie moderne,  si fosse aggiunto anche il diritto alla bellezza tante nefandezze del ‘900 si sarebbero evitate. Plotino affermava che il brutto non è altro che ciò che la nostra anima trascura e quindi non è denominato da una forma. E’ il caos del disordine, del senza cura, della disattenzione, dell’ avidità e della confusione dei valori.  Non è questo che noi rimproveriamo in Italia alla politica? Abbiamo personaggi che si presentano alle elezioni promettendo di tutto, demagoghi che approfittano dello scontento e della rabbia per guadagnare un potere inutile perché non hanno nessuna disposizione per la politica, appunto come scienza del vivere insieme per il bene comune. Personalità egoiche che non hanno saputo individuarsi e ne escono assurdità. Vi è una nevrosi diffusa nella nostra società: è malata di narcisismo.
La politica dunque avrebbe come compito primario di ricondurre alla bellezza come rispetto per la vita, che naturalmente si traduce in  rispetto per tutto ciò che vive, uomini e natura. Il poeta filosofo libanese Kalil Gibran afferma infatti che la bellezza non è altro che la vita quando mostra il suo lato benedetto. Si definisce la politica anche come arte del possibile, ecco che da questa affermazione ne discende che migliorando la polis migliori la politica. Ricordiamo per inciso che l’aspetto delle città lo si decide nelle giunte comunali, luoghi tipici della politica. Ci dobbiamo chiedere quindi in questo momento di crisi di quest’ultima che cosa può fare la cultura della bellezza per migliorarla? L’etimologia ci viene sempre in soccorso e insegna che cultura deriva dal latino colere, in italiano coltivare, quindi passare da uno stato selvaggio a uno coltivato. I francesi dicono di un uomo colto “bien cultivè” e la coltivazione prevede la capacità di cura , di pazienza e di educazione che poi è l’arte maieutica di far uscire la parte migliore di noi. Come diceva Socrate dobbiamo utilizzare le virtù della levatrice che sono: la pazienza, la competenza e l’esperienza. Non si ottiene un gran che se il nostro desiderio di fama e di potere ci fa saltare le tappe che la natura ci ha imposto per accedere a livelli superiori di consapevolezza. Dovremmo  dunque essere in grado di  tornare ad una cultura responsabile e quindi saggia, cioè in grado di abbracciare il tutto. Occorre che esercitiamo la capacità di osservare la foresta e non solo di contare gli alberi, dovremmo abbandonare dunque il primato dell’economia del denaro a favore di una ecosofia che sancisca il valore di un nuovo  star bene.  Sembra che la bellezza non abbia a che fare con l’economia  perché la consideriamo come accessoria, un lusso, ma ci siamo mai chiesti quanto costi la bruttezza? Quanto costino in termini di benessere fisico ed equilibrio psicologico un design trascurato, colori da quattro soldi, strutture e spazi senza senso? Passare una giornata in un ufficio brutto, su sedie scomode, in mezzo al disordine e allo sporco, per poi alla fine della giornata tuffarsi nel sistema del traffico e dei mezzi pubblici e infine in un fast food e in un’ abitazione di serie. Che costo ha tutto questo? Quanto costa in termini di assenteismo, di ossessione sessuale, di abbandono della scuola, di iperalimentazione, di attenzione frammentaria, di rimedi farmaceutici, dello spreco consumistico, della dipendenza dalla chimica?  Forse che le cause dei maggiori problemi sociali, politici ed economici della nostra epoca non potrebbero ricercarsi anche nell’assenza della bellezza?  La nuova cultura  potrà incidere sulla politica, nel senso che garantirà una selezione di personalità che si distingueranno per competenza e responsabilità, che  trascenderanno  l’ego insaziabile e matureranno un sé distaccato che accede alla politica per il bene collettivo. Non sarà un percorso facile, bisogna esercitare la pazienza perché si prevedono cadute e ricadute.  Ma infine che cos’è bellezza? Se non sei in armonia non la vedi perché la guerra è la sua nemica e uno stato di guerra è anche quello generato da un’economia di rapina che dimentica i valori umani ed esaspera la conflittualità nella concorrenza, è il pensiero dicotomizzato, amico-nemico, dominio-sottomissione. Rimettere al centro la bellezza dunque è un buon antidoto alla conflittualità permanente che notiamo anche nella politica nostrana. La passione estetica è un contravveleno alla passione per la guerra.      

domenica 13 ottobre 2013

La politica e la cultura televisiva

In  questo tribulato e confuso periodo della vita pubblica in Italia, che non ha mai raggiunto un così basso profilo,  viene quasi automatica una riflessione su elaborazione culturale e azione politica ai tempi della televisione e di internet.
Il tema non è nuovo ed è stato più volte affrontato anche nel secolo scorso da diverse angolazioni e da diversi autori, a partire da Louis Munford fino a Erich Fromm, ma cinquanta-sessant’anni fa non vi erano i mezzi di comunicazione odierni e poi “repetita iuvant”.
Qualche organo di stampa nazionale recentemente ha titolato pressappoco così alcuni articoli: “Son tornati di moda i salotti letterari”. Quasi a dire che ai tempi della rete si torna ad aver bisogno dello scambio culturale dal vivo. In effetti la storia ci insegna che l’intellighenzia nei secoli, ma soprattutto a partire dal settecento, l’epoca dei lumi, fino a tutto l’ottocento si ritrovava nel salotto della tal dama o del tal potente che mettevano a disposizione la propria dimora per il piacere di discutere le  nuove idee che poi, grazie a loro, trovavano un canale per influenzare la politica. Questa  abitudine si è protratta anche nel 900 almeno fino alla nascita della televisione.
In Italia nel dopoguerra,  dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, si sono moltiplicati i partiti e la politica, che dovrebbe essere figlia della cultura, ha trovato nuove forme di aggregazione e discussione nelle sezioni di partito dove fino agli anni ottanta, si discuteva dopo cena delle linee e degli interessi della propria parte in relazione alla interpretazione dei bisogni della società anche con le persone che la rappresentavano nelle istituzioni. Questi luoghi di dibattito  attraevano anche gli altri centri di cultura, le università, la scuola e per l'appunto i salotti, perché lì si distribuivano gli incarichi di potere. Poi è arrivata la crisi dei partiti e si sono moltiplicati altri luoghi di aggregazione come le associazioni e i centri sociali che però non avevano e non hanno un chiaro sbocco politico, salvo rari casi. La televisione e i salotti televisivi  nel frattempo hanno preso il monopolio della politica. La crisi di credibilità dei partiti si è andata sviluppando infatti quando, anche grazie al mezzo televisivo che ci rende tutti passivi ascoltatori,  invece di costituire il legame fra i movimenti di idee e le rappresentanze istituzionali, o meglio fra i bisogni della gente ed il potere come servizio, sono diventati tout court dei sistemi oligarchici di distribuzione del potere. La funzione del partito, come previsto dalla Costituzione, forma di aggregazione collettiva di persone che hanno le stesse opinioni e gli stessi bisogni e cercano una rappresentanza da mandare nei centri decisionali, così finisce per naufragare nel mare di interessi personali dei vari leader che nel frattempo hanno trovato una sistemazione redditizia che si guardano bene dal lasciare. A questo fallimento, come dicevamo, contribuisce non poco il sistema dei media  che negli ultimi 30-40 anni hanno assunto una valenza poderosa nella formazione delle opinioni. In tempi di televisione, a partire dagli anni settanta-ottanta si ha una sorta di estraneazione dei politici dalla società che vogliono rappresentare. Da qui la nascita della cosiddetta Società Civile, in contrapposizione alla politica del malaffare, che ha favorito e sostenuto Tangentopoli. Ma la vittoria del puritanesimo, anche nella Storia, non ha  mai prodotto grandi cose. In sintesi si è creata una crisi di rappresentanza che in democrazia significa una disfunzione del meccanismo che dovrebbe permettere a chiunque il passaggio dal ruolo di cittadino a quello di rappresentante. Questo rischio è insito alle democrazie, e succede anche in altri paesi, ma quelle più consolidate hanno meccanismi che non permettono eccessive degenerazioni. Da noi impera la demagogia e dopo Tangentopoli, che ha azzerato la classe politica della prima repubblica mediante il potere giudiziario, abbiamo il populismo.  Tradizionalmente questo meccanismo era sostenuto dai centri di cultura che permettevano a chiunque di “rilevarsi da solo”, come recita ad esempio lo statuto dell’Umanitaria, non a caso in piena crisi d’identità, che era stata fondata proprio a questo scopo, cioè di dare ai diseredati le stesse opportunità dei privilegiati.  Ma non solo, come dicevamo anche le università, i circoli, i clubs, i salotti culturali  e via, benchè l’accesso in altri tempi era precluso ai più esisteva però un filo diretto tra questi luoghi di elaborazione  teorica e l’azione politica, basti pensare ad un Mazzini che, vissuto in clandestinità, influenzava con le sue idee l’azione di migliaia di giovani. Oggi il mass-media televisivo ha sostituito ogni altro modo di comunicare e poiché il mezzo è per sua natura superficiale, e oggetto di manipolazione da parte del potere, assistiamo,  senza poter partecipare, anzicchè a un dibattito di idee ad una sorta di marketing televisivo di questo o quel personaggio promosso dal circuito mediatico. Non a caso a chi si propone in politica sentiamo fare la seguente domanda: “Ma tu  che rapporti hai con i media”? Assistiamo in sostanza ad una diffusa sclerotizzazione della politica che diventa difesa della Casta. In termini psicologici potremmo chiamarla nevrosi del potere se con Adler intendiamo per nevrosi la volontà di potenza senza sentimento sociale. Bene ha fatto il Presidente Napolitano a sottolineare la conflittualità senza senso tra i partiti con la citazione di Benedetto Croce  alla Costituente, ma forse il filosofo, concluso il fascismo e la guerra, era troppo ottimista sulla funzione dei partiti, sui mali della democrazia e la funzione dei media. Non si è mai citata tanto la Costituzione come di questi tempi.  Il mezzo televisivo ha sparigliato le carte, usato male ha diviso la società in visibili e invisibili, gli invisibili hanno scarse possibilità non solo in  politica.  In quest’ultima è diventato uno strumento formidabile nella organizzazione del consenso e nella creazione di personaggi da far eleggere in parlamento. E’ noto l’episodio di Cicciolina, la pornostar presentata dai radicali ed eletta. Non a caso per quasi vent’anni siamo stati governati dal proprietario di buona parte dei media, dai suoi avvocati, dalle sue soubrettes e dai suoi conduttori. La televisione ha dunque contribuito a generare i tre eccessi della contemporaneità, o surmodernitè per Marc Augè, eccesso di tempo, eccesso di spazio e di individualismo, la società liquida per Baumann, cioè la rottura della solidarietà.
La domanda che ci poniamo ora è questa: stando così le cose come si può ricostruire il legame necessario tra elaborazione teorica ed esercizio del potere? Il governo dei tecnici non è la soluzione, può essere un palliativo in una situazione di emergenza ma non può essere certo sempre delegata a governare l’Università che nel frattempo ha perduto il suo prestigio a causa del livellamento verso il basso delle lauree, produce disoccupazione intellettuale ed ha gli stessi problemi di clientelismo dei partiti di cui è stata spesso la ruota di scorta. In sintesi bisogna trovare una nuova forma di organizzazione della domanda di rappresentanza che non sia quella dei partiti storici. Ecco allora apparire i movimenti, come quello arancione a Milano, che raccolgono le esigenze di cambiamento ma con quale elaborazione teorica? Proprio per non avere basi certe ora viene tirato di qua o di là  dai demagoghi che vogliono sfruttare il suo brand.
E’ certamente una novità la rete  di Internet, anche se per ora non ha raggiunto i livelli di popolarità della televisione, permette di interagire, di dialogare, ciascuno può mettersi in rete, sembra più democratica per questo. Il successo dei forum virtuali, come ad esempio Arcipelagomilano, sono lì a dimostrarlo ma anche la rete ha i limiti suoi propri e, come tutti gli strumenti  della tecnica, può essere usata bene o male, in fin dei conti non è che un’accelerazione del sistema postale, tu puoi mandare mail al potente e questo non rispondere. Sembra invece che l’antidoto alla società liquida sia proprio un ritorno al passato, come si diceva all’inizio,  e cioè ai circoli, ai salotti, ai “cabinet litteraire”, luoghi dove ci si incontra di persona e non solo in maniera virtuale. La crisi economica forse rallentando i ritmi ci riconduce all’antica passione di dialogare e di incontrarsi? Può darsi. E’ auspicabile, secondo il sociologo Zygmut Bauman si può uscire dalla crisi solo passando da un modello incentrato sull’individuo a uno che si basi invece su un’esperienza etica ed estetica, privilegiando i rapporti umani ed il contesto. E’ da lì che può nascere un rinnovamento della politica, un nuovo umanesimo come auspicava Erich Fromm, non certo da false primarie con candidati  imposti e sostenuti o dai “tecnici dell’economia”. Da lì può rinascere la voglia di premiare il merito e non l’immagine, la voglia di farsi rappresentare da chi ha a cuore l’interesse collettivo e la voglia di servirlo.
                                                   

mercoledì 9 ottobre 2013

Speculazione Edilizia



Il CORRIERE DELLA SERA celebra i cinquant'anni dalla pubblicazione del romanzo di Italo Calvino Speculazione edilizia. Nel 1963 lo scrittore sanremese commentava, attraverso il personaggio Quinto Anfossi, la cementificazione della sua Liguria per far posto alle seconde case dei lombardi e dei piemontesi in una situazione di "bassa marea morale". Dopo cinquant'anni possiamo osservare che è andata anche peggio di come lui prevedeva e la bassa marea è continuata senza essere mai  seguita da quella alta come in natura. In pratica ormai la Liguria da Genova a Ventimiglia è un continuo urbanizzato, una città regione lineare, salvo rare interruzioni, che si estende per circa 150 chilometri. I caselli autostradali e le stazioni ferroviarie hanno mantenuto la cadenza degli antichi borghi marini ma di questi sono rimasti solo i nomi e pochi antichi edifici sommersi dalla marea ( per usare sempre la metafora marina) delle costruzioni venute su negli ultimi cinquant'anni, appunto. La città di Sanremo in particolare è stata presa d'assalto da costruttori senza scrupoli che ne hanno sfigurato il paesaggio così da renderlo omogeneo allo squallore di tutto l'edificato recente che invade il resto del territorio. E' sconfortante vedere che gli appelli di intellettuali di quegli anni, come Antonio Cederna o Bruno Zevi, oltre naturalmente allo stesso Calvino,  non siano serviti a nulla se non a richiamare l'attenzione su aree e paesaggi che poi sono diventati, per ironia, ancora più oggetto di rapina e distruzione. Ricordo un articolo di Bruno Zevi per l'Espresso su Ventimiglia  dove faceva il confronto fra quello che si era fatto in Italia vicino al confine e quello che invece avevano realizzato i francesi a pochi chilometri di distanza oltre la frontiera. Indubbiamente, pur mantenendo la stessa volumetria esagerata, permessa dalle varie amministrazioni che si sono succedute dal dopoguerra, si sarebbe potuto fare molto meglio, come hanno dimostrato i cugini d'oltralpe,  del museo degli orrori che si presenta al turista da Vallecrosia a Ventimiglia. Nessuno vuole negare il diritto di avere una casa vacanza ai villeggianti di varia provenienza ma una buona attenzione al suo inserimento nel contesto ambientale non l'avrebbe certo resa meno appetibile al mercato. Invece la generazione dei costruttori del cosidetto "bum economico" degli anni 50 e 60 ha considerato l'attenzione al contesto ed il fattore estetico come orpelli da eliminare per risparmiare tempo e guadagnare di più. La fretta indebita sta nel nostro modello economico e l'abbiamo sotto gli occhi ovunque in questa zona e non solo. Il frettoloso, il superficiale, l'eclatante è il frutto velenoso di questo modello.Ciò è sperimentabile in qualsiasi area urbanizzata di recente, salvo rare eccezioni: in particolare qui dove l'urbanizzazione è avvenuta sotto la spinta di interessi speculativi dovuti ai fenomeni delle mode di grande intensità ma di breve durata.
Il FAI, fondato nel 1975 con lo scopo di difendere il paesaggio italiano e che in questi anni annovera numerose battaglie vinte, afferma che in Italia, ancora oggi in piena crisi economica, vengono consumati dalla cementificazione 82 ettari al giorno, il che vuol dire che siamo ben lontani dall'esaurire la spinta verso il consumo di suolo a scopi edilizi cominciata nel dopoguerra.
Recentemente mi sono recato  in una località della Valle Seriana, in provincia di Bergamo, che frequentavo da bambino negli anni cinquanta alla quale ero molto affezionato per i campi di ranuncoli che fiorivano in estate, ho trovato al loro posto una miriade di villette di scadente fattura costruite negli ultimi venti anni. Lo scrittore- filosofo svizzero Alain De Botton nel suo libro Architetettura e felicità suggerisce un metodo per giudicare esteticamente un'architettura, la prova del campo:  quando si vede un'architettura si immagini al suo posto un campo fiorito, se lo si rimpiange allora è brutta. Quanta dell'edilizia degli ultimi cinquant'anni ci fa rimpiangere i campi.

martedì 3 settembre 2013

Pacifismo ai tempi della guerra in Siria


Appena finita la guerra la mia famiglia era ancora sfollata in montagna, nella bergamasca. Avevo 3 o 4 anni e abitavamo una villa con un grande giardino. Una notte, nel campo di fronte al nostro cancello, al di la del viale di tigli, si sentirono delle urla, così mi dissero perché a quell'etá il sonno è profondo e non ricordo di averle sentite. Era inverno e c'era la neve che si stava scogliendo sul prato. Il mattino dopo mio padre mi portò con se a vedere cosa era successo. Attraversammo il campo in direzione di un gruppetto di persone che sostavano guardando a terra. Quando arrivammo ci accorgemmo di una grande macchia rossa nella neve. Avevano nella notte ucciso un uomo, pare un "fascista" che andava a trovare la moglie nel vicino sanatorio. Una vendetta di qualche presunto "partigiano" che non aveva deposto le armi. L'avevano ammazzato a calci e per terra, dopo che lo avevano portato via con un carretto, erano rimasti i denti rotti e il sangue. Perché raccontare questo aneddoto, vi chiederete? Perché credo che questo episiodio sia stato il mio primo contatto con un delitto assurdo, la banalitá del male e abbia segnato indelebilmente la mia sensibilitá. Da li è sorto il mio rifiuto della violenza e della guerra. Ma essere pacifista non è un problema da poco, i mass media ci rimandano in tempo reale le immagini di questi bambini siriani che assistono quotidianamente ai massacri della guerra civile. Diventaranno pacifisti? Non credo. Solo se saranno capaci di dominare la rabbia e la paura. Non è un compito facile e quindi la maggior parte saranno dominati dallo spirito di vendetta che fará di loro i fautori di altri conflitti. Questa è la turpe ereditá della guerra: creare i presuposti psicologici per altre guerre. Hilmann affermava che vi è "un terribile amore per la guerra", diventato poi il titolo di uno dei suoi ultimi libri. Estirpare questo archetipo è pressoché impossibile se non lo riconosciamo come tale. Ma noi viviamo in una societá organizzata su modelli che esaltano il conflitto. I valori che respiriamo fin dall'infanzia esaltano le virtu belliche che ritroviamo anche nella vita civile. Fino a non molto tempo fa, ancora oggi in provincia, il maschio si identificava con la divisa che in gioventù aveva indossato da militare. L'economia esalta la competitivitá con un linguaggio da guerra, conquiste di mercati, vittorie, sconfitte, combattimenti e il dio denaro regna sovrano. Le guerre hanno sempre dei risvolti economici, chi lucra sulla rabbia e la paura? L'opinione pubblica viene manipolata usando ad arte i mezzi di comunicazione di massa per provocare lo sdegno necessario per giustificare la guerra. Si parla infatti di guerra di immagini e della propaganda ma è su questo fondamento di aggressivitá, generato dalla paura e dalla rabbia, che poggia la morale publica che la promuove. Come per il dilemma siriano, Tolstoj si interrogava sulla moralitá di intervenire in un conflitto attraverso il suo personaggio Levin in Anna Karenina: "se tu vedi uno che assale una donna o un bambino che fai? Non intervieni?" Risposta: " Si ma questa è una mia scelta persoale per difendere il più debole e non per uccidere." Gli stati invece quando decidono di entrare in una guerra, da una parte o dall'altra, sanno che rilasciano licenza di uccidere come del resto lo sanno i produttori di armi che vendono ai contendenti. Bisognebbe denunciare e punire le banche che si prestano a questi trasferimenti di denaro come per il riciclo di origine mafiosa. Colpisci chi specula e guadagna con la guerra e toglierai di mezzo molte fonti che la alimentano. Veniamo ora al punto dolente della guerra siriana, dell'uso dei gas e dei bambini uccisi o resi orfani. La comunitá internazionale deve intervenire o no? A parere mio non si migliora la situazione aggiungendo della violenza alla violenza e aumentendo il substrato di paura e di rabbia. La guerra è un fuoco che si alimenta con le rivendicazioni, le vendette e le punizioni. Gli esempi della storia, anche recente, sono li a dimostrarlo. La follia si disarma con la pacatezza, la saggezza e la calma. Con il passaggio da un pensiero dicotomico ad un pensiero sistemico. Kant indicava due strade per la pace perpetua. Una è quella di un organismo di diritto internazionale riconosciuto che giudichi le cause fra stati, ed ora c'è l'ONU. La seconda è l'abolizione degli eserciti permanenti, ovvero la smilitarizazzione della societá e della cultura. Questa è ancora di là da venire e riguarda tutti, è una nuova cultura che coinvolge anche l'economia: altro che missili per operazioni chirurgiche. "La bellezza salverá il mondo" diceva il principe Miskin nell'Idiota di Dostoevskj, Hillmann diceva la stessa cosa in modo diverso, ma quale bellezza vi è nei missili che esplodendo producono altre macerie e morti oltre a quelli che giá ci sono? Diamo il mondo ai poeti e salveremo la terra. 

venerdì 16 agosto 2013

Delenda ars



Ho visitato le Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo a Milano e ne sono riemerso con la convinzione sempre più radicata che gli anni sessanta del secolo scorso segnino una sorta di degenerazione annunciata dell’arte. Confrontati con la pittura dell’ottocento e del primo novecento ci si chiede come è stata possibile una tale debacle che viene chiamata con vari appellativi suggeriti dai critici nel tentativo di sublimare una esasperata tendenza alla distruttività. La chiamavano avanguardia come se il futuro dell’arte fosse alla fine la negazione dell’arte stessa nel concettuale. Ora nelle ultime  tendenze si puo notare timidi ritorni al rapporto con la creatività della natura. Forse é il pensiero ecologico che ci salva.
A pensarci bene non esistono culture nel passato che avevano la pretesa di essere avanti e basta, nel futuro addirittura. Oggi ben lungi dal rivedere questo atteggiamento siamo aldilà dell’avanguardia, in questa corsa qualcuno dice sempre di essere più in là, cosi l’elemento provocatorio e innovativo ha sempre la meglio. E’ la concezione dell’arte che deve modificarsi: se ne accettiamo la definizione come la capacità di scoprire la dimensione magica della vita tutto cambia, non c’è un prima e un dopo. Nel passato nessuno era cosi’ presuntuoso, nè mai avrebbe osato affermare di essere sradicato dalla tradizione. Dalla concezione avanguardista moderna discendono tutte le degenerazioni degli artisti maledetti che pur di essere avanti perdono di vista la funzione dell’arte e dell’artista di ricondurre al nocciolo religioso e transpersonale in noi. E allora si parla di morte dell’arte come se fosse una funzione intercambiabile ma non è l’arte che è morta sono coloro che hanno perso il rispetto per la vita. L’arte invece, fin dalle origini, non è una funzione della vita ma la dimensione sacra di essa.
L’arte per i Greci era la teknè ovvero la capacità tecnica dell’artigiano di lavorare la materia sua propria, lo scultore il marmo e il bronzo, il pittore i pigmenti dei colori e cosi via: un insieme di regole che ordinavano un’attività umana tesa ad un risultato migliorativo della natura.  Aristotele affermava che finalità delle regole (etica) era la felicità. Per i Greci questa la si raggiungeva con l’eudemonia, un sogno estetico fatto di conoscenza dei propri bisogni e di dominio delle passioni, armonia che coincide con bellezza. Dunque il fine della teknè era la bellezza. L’arte gareggiava con la natura in estetica, anzi era superamento della natura determinato da una conoscenza approfondita di essa che, benchè piena di accidenti faceva intravedere il mondo perfetto delle idee nella concezione platonica.  E’ cosi che i Greci ad esempio scoprirono la sezione aurea, una legge naturale di sviluppo e accrescimento del vivente che essi utilizzarono nelle loro opere pensando di avere scoperto una regola di bellezza universale. Questa concezione dell’arte duro’ diversi secoli e cioè fino a quando nel XVIII° secolo essa si lega al gusto e diventa soggettiva. Agli inizi del XIX secolo il filosofo romantico Federich Schiller afferma essere l’arte attività che crea da se le sue regole per distinguerla dalla scienza che invece segue regole determinate e necessarie. Questo ha fatto si che si potesse affermare che ciascuno poteva fare quello che voleva e se, per un certo verso, cio’ ha liberato da certe dipendenze e rigidità della tradizione classicista per un altro verso ha dato l’avvio al disimpegno sociale dell’arte e all’arbitrio individualista più sfrenato dove viene valorizzato l’elemento innovativo e provocatorio in sè, ogni sorta di pulsione inconscia senza alcuna finalità se non quella di scandalizzare. Il Romanticismo poi, valorizzando le passioni e i sentimenti, pur liberando la fantasia, ha dato i presupposti per quelle degenerazioni che oggi sono sotto gli occhi di tutti e che si possono ammirare anche alla suddetta esposizione. Se nel campo della pittura e della scultura tutto questo, rafforzato dallo spirito dionisiaco e dalla volontà di potenza, ha avuto come conseguenza solo la riduzione dell’arte a fenomeno da psichiatria con le sue esibizioni di disagi interiori, nell’architettura invece ha inciso sull’aspetto della città e quindi sulla qualità della vita.
L’arte nell’ultimo secolo si è snaturata e il verbo non è usato a caso perchè ha cessato di essere in relazione con la natura, nel senso di un suo miglioramento a fini benefici per l’uomo.
Allora tutta l’arte contemporanea è da buttare? Certo che no, solo certa presunta tenendo presente la personalità dell’artista e la sua identità nel mondo di oggi dominato dai media e dal denaro. A volte è difficfile distinguere il folle dall’artista geniale perchè ambedue superano il mondo ordinario e sono ai confini della coscienza ma il primo si distingue per la presunzione e la violenza, il secondo per l’umiltà e la semplicità. Il primo si identifica con il proprio ego e pensa di essere un dio, il secondo si identifica con il Se e sa che non ha alcun merito in quello che riesce a fare ma lo fa perchè è il compito del proprio destino e cio’ gli dà felicità e unificazione. Ambedue nuotano nel mare dell’essere: il primo annega per presunzione, il secondo sa nuotare. Il filosofo russo Pavel Florenski, morto nei gulag stalinisti nel 1941, al proposito affermava che il primo sale al mondo invisibile e si porta dietro tutti i suoi fantasmi egocentrici perdendosi e credendo di essere un ispirato, il secondo sale al mondo ultrasensibile con umiltà, nudo, e ne ridiscende portandosi dietro le cose ineffabili di quel mondo.   Questa dovrebbe essere la discriminante per tenere o per buttare l’arte, dagli anni sessanta in poi, ma non è facile distinguere il vero dal falso in un ambito dove questa è stata finanziarizzata e a volte risulta solo essere un segno che pero’ vale denaro.

                                                                                                                                                 


domenica 11 agosto 2013

Casa dolce casa

Casa dolce casa


Quando si parla di architettura ed ecologia si parla principalmente di casa. Scrivevo nel 1992 nell’introduzione al mio libro “L’uomo, l’ambiente,la casa” che il pensiero ecologico ha investito tutta la cultura occidentale e le varie discipline, in primis l’architettura. Ogni tanto nella storia si presenta la necessità di cambiare il paradigma di partenza per una nuova interpretazione della realtà che permetta un migliore adattamanto ed uno scatto evolutivo. Di questi tempi (scrivevo) è l’approccio sistemico bioecologico che sembra essere la nuova opportunità in tutti i settori. L’architettura, intesa come attività teorica che sta dietro la trasformazione della natura da parte dell’uomo, è la disciplina più coinvolta da questa rivoluzione culturale. Vent'anni dopo possiamo dire che è  ancora vero? In parte si ma abbiamo potuto constatare che accanto alle rivendicazioni ambientaliste (molto spesso più di apparenza che di sostanza) vi è  un’economia di rapina che genera, come dicevo, monumenti a se stessa e crisi cicliche.  Prendiamo la casa che è dell’architettura moderna l’emblema: è si nata la casa bioecologica e la certificazione energetica ma si continua a costruire falansteri e grattacieli che di fatto contraddicono il suddetto paradigma. Il perchè di tutto questo, come abbiamo già esposto in precedenza, sta nella spaccatura che esiste ancora tra le aspirazioni all’armonia, a un nuovo rapporto con la natura, sentito come nostalgia delle origini, e la volontà di potenza che contraddistingue invece il mondo della finanza e delle tecnoscienze. Abitare è una condizione dell’esistere e quindi la casa risente di questi diversi approcci alla realtà. Dal 1988 ho realizzato corsi che intitolavo “La casa biologica” a distinguere questo bisogno di complessità organica  contro la proposta presuntuosa, anche di maestri dell’architettura moderna innamorati della tecnica, di rispondere a questa istanza abitativa con la semplificazione anoressica della grande dimensione. Il concetto di massa è un  prodotto del novecento dove l’individuo viene vissuto come numero senza qualità, uno nessuno centomila, e la casa come macchina. A nulla sono valse le verifiche sulla vita nei monumenti dell’architettura moderna, come ad esempio l’Unitèe d’abitation di Le Corbusier. Sul famoso esempio si è andati a costruire per case popolari megastrutture che sono diventate ghetti di mala-vita, in Italia sono arcinoti esempi il Corviale di Roma e le Vele di Napoli. Qualcuno suggeriva che gli architetti che progettano queste mostruosità dovrebbero essere obbligati ad abitarvi. Ma tornando all’esigenza di case si puo affermare che  nella nostra società liberista si risponde in diversi modi a seconda del censo. Tralasciando il grave problema di chi è rimasto senza lavoro e senza casa, messo in luce da un libretto prezioso di Marc Augè,”Diario di un senza fissa dimora”, rispondono a questa esigenza fondamentale le Società immobiliari, il mondo della cooperazione e lo Stato, attraverso i vari Istituti per le case popolari. Nonostante questo potente apparato la situazione del diritto alla casa non è mai stata cosi precaria: la crisi economica e l’immigrazione l’hanno resa drammatica.  Eppure malgrado il grande numero dei senza dimora, sempre in aumento, in Italia le statistiche  ci dicono che vi sono più di due vani per abitante. Come mai? La risposta stà nel fatto che il mattone è diventato un bene rifugio per gli investimenti finanziari e che esiste una fascia sociale che possiede più di una casa ed una fascia che non ne ha nemmeno una.  Le immobiliari insistono sul proporre case per una fascia medio alta che in questo momento non vuole acquistare, cosi si ha una notevole quantità di invenduto con palazzi vuoti. L’edilizia convenzionata delle cooperative registra nel campo della proprietà divisa uguale fenomeno poichè le banche hanno ristretto i mutui. Rimane l’edilizia sociale che fa riferimento alla fascia più povera e che in questo momento è formata principalmente dagli immigrati, questa è in crisi e non investe da anni avendo oltre tutto una insolvenza che raggiunge livelli molto alti. Cosi si ha una situazione paradossale in cui la fascia più punita é il ceto medio formato da giovani, impiegati, professionisti, intellettuali, insegnanti ecc. Cioé la parte migliore della società, la più colta e potenzialmente la più produttiva, quella con un livello di istruzione più elevato.Intanto la cementificazione continua e le proposte si fanno sempre più lontane da quella esigenza complessa di casa per la vita cui si accennava. La città infine è divisa per distretti stabiliti dal reddito ed è ben lontana da quel mix sociale che sembra costituire garanzia di buona-vita ai quartieri urbani ed anche gradevolezza estetica. Vi sono infine anche  tentativi di Housing sociale, soprattutto da parte di quegli enti, come le Fondazioni, che non hanno scopo di lucro, in genere sono frutto di una progettazione attenta a quelle domande di casa biologica cui si accennava ma questi per incidere sul mercato hanno bisogno di realizzare una massa critica che sono ben lungi dal raggiungere. In questo squallido panorama,  in cui tra l’altro sono aumentati del 50 % gli sfratti per morosità, le Banche e le grandi immobiliari  continuano a proporre soluzioni tecnologiche firmate per ricchi (per lo più stranieri) quando la domanda è da un’altra parte.                    

lunedì 29 luglio 2013

ecologia e bellezza

Ecologia e bellezza 1

Il precedente articolo ha suscitato numerosi interrogativi sulla bellezza in architettura e in generale sul concetto stesso. Ci chiediamo che cosa significhi oggi e perchè quello che ci sembrava bello, ad esempio, negli anni cinquanta oggi ci appare sempre più brutto.  Il pensiero ecologico ci viene in soccorso e ci dà nuove certezze anche nei giudizi estetici, tanto aleatori. E' la crisi dei concetti di sviluppo e progresso che ci soccorre.

Almeno dalla fine del XVIII secolo la fiducia nel progresso umano ha sempre sostenuto le ideologie che si sono succedute in Occidente, l'idea di progresso si è poi legata agli sviluppi straordinari della scienza e della tecnica per cui si è insediata nella cultura occidentale la convinzione che da una generazione all'altra ci sarebbe sempre stato un miglioramento delle condizioni di vita. Questo credo nel futuro ha avuto il suo acme nel periodo immediatamente precedente la prima Guerra Mondiale anche nell'arte con il Movimento Futurista che esaltava l'industria, la velocità e la tecnica, i suoi mezzi meccanici e vedeva la guerra come "igiene del mondo".  Ma anche dopo, nonostante le due tragiche esperienze delle guerre mondiali, non ha mai cessato di sostenere le due principali ideologie politiche del 900, quella comunista e quella liberale. Solo a partire dagli anni settanta si è fatto strada, anche a livello degli economisti il concetto di sviluppo sostenibile e contemporaneamente il timore che le risorse potevano esaurirsi nel breve periodo di due generazioni. Questa è la sostenibilità di cui si parla oggi. Naturalmente come la fiducia illimitata nelle tecnoscienze ha prodotto un’estetica anche questa ecosofia produce una sua estetica. Si rimette in discussione il rapporto tra artificio e natura. Che nel caso dell’architettura significa rivedere il rapporto con il luogo: si va da una topofobia ad una topofilia. Voglio dire che nasce cosi una rinnovata attenzione a quello che si rischia di perdere per sempre e cioè il paesaggio. Si rinnova anche un certo interesse ai valori umani e questo cambia anche il nostro giudizio estetico: quello che prima appariva bello perchè generava ammirazione per la volontà di potenza e le possibilità della tecnica ora ci appare incombente e pericoloso per la nostra salute e per quella del pianeta. La bellezza di un edificio risulta essere quindi una delicata alchimia tra la capacità professionale di chi lo ha progettato e costruito, con cura e attenzione al contesto ambientale e umano, e la capacità di chi fruisce di mettersi in uno stato contemplativo che permette di percepire questa attenzione alla vita. Ma questa condizione dei soggetti non puo generarsi che in condizioni particolari di pienezza del vivere e soprattutto di gioia, emozione che passa attraverso l’individuazione e l’appartenenza ed è messa in fuga dal titanismo incombente imposto dal di fuori. Nel mondo globalizzato abbiamo internazionalizzato un modo di fare architettura che vuole fare soltanto marketing al potere del denaro e questo a una sensibilità ecologica non puo apparire bello. L’internazionalismo in architettura vi è sempre stato. Si puo notare che nella storia si alternano momenti di chiusura e momenti di apertura, durante questi ultimi l’architettura regionale arriva a confrontarsi con una tendenza internazionale che la influenza in un dialogo che arricchisce. L’attuale globalismo architettonico senza qualità, provocatorio e sterile, con la potenza dei media e dei tempi ridotti dalla tecnologia non vuole dialogare con un contesto tradizionale e una cultura locale ma vuole dominare e sovrapporsi. Cosi abbiamo il fenomeno di grandi studi che progettano al di là dell’oceano o in paesi lontani senza aver mai visitato fisicamante il luogo ed averne respirato il genius loci. In questo modo non nasce uno stile, che é appunto l’espressione di una cultura che necessita di tempo per essere assorbita, ma si ha solo un fenomeno di colonialismo culturale mediatico che determina impoverimento e omologazione. Infatti si progetta e si costruisce allo stesso modo a Koala Lampur come a Milano o a New York. Se andiamo avanti cosi avremo gli stessi non luoghi in tutto il globo.