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mercoledì 12 marzo 2014

La crisi dell'architettura

Leggo sul Corriere che in una intervista  il direttore della Biennale di Venezia dice  che l'architettura è in crisi.  Non mi sembra una grande novità. Da sempre essa è una metafora del potere e come tale costituisce il suo più antico mass-media. E' inevitabile che a fronte di un capitalismo senza etica, ormai globalizzato, abbiamo una architettura che punta solo ad apparire più che servire. Tuttavia costituisce il nostro spazio esistenziale e condiziona le nostre vite per cui sentiamo il disagio connesso alla sua criticità. La crisi dell'architettura costituisce una conferma della crisi della nostra cultura. Nel 1992 ho pubblicato un libro che indicava una via d'uscita per l'architettura, infatti il sottotitolo era Verso un'etica bioecologica dell'architettura, ma non mi pare che nel frattempo si siano fatti grandi passi in questo senso. E' avanzato il movimento cosidetto della bioarchitettura, con competizioni, liti e dispetti fra quelle realtà del terzo settore che lo promuovevano, come la nostra: ancora oggi vi è chi ritiene di essere il depositario del diritto di fregiarsi del nome "bioarchitettura". Questo dimostra che anche qui il potere, magari negato nella forma tradizionale, rispunta fuori come la sostanza dell'architettura. E quindi un potere malato non può che dare un'architettura in crisi.  Il nuovo capitalismo globalizzato ha come finalità il denaro e abbiamo una economia  basata sulla finanza anzicchè un'economia reale basata sulla produzione. Questo fatto tende a svalutare il manufatto in se che diventa utile solo se produce denaro. La tecnologia è piegata a questo fine e il valore di scambio trionfa sul valore d'uso. Anche l'architettura segue queste leggi dunque ci troviamo a subire edifici che hanno il solo scopo di esaltare il potere del denaro e di produrne dell'altro attraverso la spettacolarizzazione esaltata dai mass- media. Abbiamo di conseguenza architetture liberi eventi contro la città anzicchè architetture per la città. Gli archistar sono funzionali a questa situazione e sono utilizzati per ottenere il consenso dei media.  Un tempo si costruiva  con l'intento di produrre bellezza per i cittadini oggi si costruisce per produrre potenza da ostentare ai media asserviti a questa logica dagli stessi poteri forti  dell'economia. La politica, anche nei regimi democratici, è condizionata da questi poteri e mentre dovrebbe tutelare gli interessi di tutti in realtà per mantenere il potere tutela gli interessi dei capitali.    La crisi dell'architettura è dunque una crisi della committenza che è ammalata di nevrosi del potere dove con questo si intende volontà di potenza senza sentimento sociale.
Se volete approfondire l'argomento c'è il mio libro appena uscito, L'altro architetto, Edizioni Giampiero Casagrande editore in Lugano e Milano, info@cfs-editore.com

sabato 1 marzo 2014

Emergenza sfratti

Il diritto alla casa sancito dalla nostra costituzione è di fatto contraddetto dalla pratica della giustizia nell'azione dello sfratto. E' vero che vanno difesi non solo i diritti di chi abita ma anche di chi affitta, che ha diritto di ricavare un reddito dal bene di sua proprietà, tuttavia ci troviamo di fronte a due diritti di cui uno è fondamentale e l'altro lo è meno, almeno riguardo al problema dell'abitare. E' evidente che con questa difesa ad oltranza della prorietà da parte dei nostri legislatori  costringiamo, come succede in Italia, ad abitare in regime di proprietà e così a limitare sensibilmente la mobilità che ad esempio all'estero è molto più alta. Qualcuno addirittura lamenta che la nostra Giustizia sia troppo magnanima nei confronti del locatore e che se ci fossero meno garanzie ci sarebbe una maggiore offerta e quindi, seguendo le leggi di domanda e offerta, un'abbassamento dei prezzi di affitto. Non sono d'accordo, il diritto di  avere una casa dove abitare va tutelato con maggiore serietà sia da parte delle istituzioni sia da parte della politica. I sindacati inquilini come il Sunia o il più agguerrito Sicet in pratica  hanno smesso di difendere i cittadini nei confronti delle proprietà immobiliari. La crisi dei partiti si riflette in ugual misura sui sindacati che sono diventati centri di potere senza aggancio sociale. Oggi a Milano vi è un'emergenza sfratti che giustamente preoccupa l'amministrazione pubblica, quest'anno sono triplicati quelli per morosità a causa della crisi.
Il diritto alla casa è uno di quei principi che spesso rimangono sulla carta. E' facile dire che tutte le famiglie hanno diritto a una casa dove abitare ma poi nella pratica non indicare i processi per realizzare questo diritto. I governi della Repubblica che si sono succeduti negli ultimi quarant'anni non hanno affrontato seriamente questo problema lasciando campo libero al mercato. Questo, sia pure in regime di liberismo, non è in grado di risolvere  i casi di necessità delle fasce più deboli. Allora nei momenti di congiuntura economica si ricorre agli sfratti senza porre attenzione alle conseguenze sociali di queste azioni giudiziarie (per questo si rimanda alla lettura del libretto dell'antropologo Marc Augèe, Diario di un senza fissa dimora).  Lo sfratto costituisce un'azione giudiziaria violenta. E' una delle numerose leggi  (quella sulle locazioni) che proteggono la proprietà. In uno stato di diritto, dove il diritto alla casa è conclamato, dovrebbe essere ammesso solo in casi eccezionali. Infatti numerose sono le persone fragili che, non accettando questa violenza, si sono tolte la vita, gli psicologi lo annoverano tra gli eventi più stressanti alla pari di un lutto.  Per comprendere questi casi, subiti peraltro anche dalla stessa Umanitaria nelle case di via Solari, bisogna entrare nella mentalità di alcuni :soggetti, in particolare anziani ma non solo, che considerano la casa il rifugio della loro vita: il luogo dei ricordi, delle proiezioni, dei simboli e della protezione da un fuori vissuto come ostile. L'attesa di un potere che ha il diritto di cacciarti di casa spesso è insopportabile per chi non ha altri valori che la propria dimora dove sono custodite le proprie cose. E' una svalutazione dell'esistenza, che non ha dirtto nemmeno di abitare. La mente si concentra su questa somma ingiustizia e non riesce a vedere alternative più creative, ad esempio che il cambiamento può giovare a qualsiasi età. Ma è questa coercizione che non si sopporta.  Se poi la ragione di questo atto è la morosità si rimette in discussione l'intera esistenza e, poichè nella nostra scietà è il denaro la misura del nostro valore, il bilancio è fallimentare.
Bisogna trovare altri metodi di intervento su chi non ce la fa a pagare l'affitto. Innanzi  tutto il tribunale dovrebbe mandare un esperto prima di emettere la sentenza per sapere il motivo dei ritardi ed inoltre l'ente pubblico dovrebbe avere un fondo di garanzia per i casi  in cui il debito è dovuto a difficoltà economiche intervenute senza colpa della persona, segnalati dal tribunale stesso. Qualora si dovesse arrivare all'atto finale dello sfratto sarebbe necessario l'intervento di uno psicologo che accompagni,  in alcuni casi, questo cambiamento traumatico e coatto.
Per non arrivare a queste soluzioni è necessario da parte della politica di un piano casa che preveda interventi concreti di facilitazione all'accesso ad  abitazioni a prezzi bassi sia per l'affitto che per la proprietà. Le strade da percorrere sono diverse, la costruzione di edifici a prezzi sociali è una di queste ma non solo. Le seconde o terze case dovrebbero essere tassate con maggior severità così da abbassarne la rendita e diminuirne l'utilizzo come bene rifugio per risparmiatori, a meno che non vengano affittate a prezzi sociali. Il fatto che invece il mattone sia diventato negli ultimi cinquant'anni il volano dell'economia in Italia ha prodotto i guasti al paesaggio che ben conosciamo e non ha risolto il problema dei senza tetto.

martedì 11 febbraio 2014

L'altro architetto



Mercoledì 5 febbraio  abbiamo presentato il mio libro  L'altro architetto alla Fondazione Cariplo di via Manin, la poetessa e pittrice Silvia Venuti ha introdotto la serata riscontrando che il testo tratta della ricerca dell'anima anche se il termine non viene quasi mai citato. Debbo ammettere che l'affermazione mi ha positivamente emozionato in quanto è vero che noi siamo sempre alla ricerca del trascendente.  L'artista è sempre stato una sorta di sciamano che aveva il compito di unire il mondo materiale a quello degli dei o dello spirito. Fin dal principio, basti osservare i dipinti della grotta di Lascaux  dell'antica età della pietra dove gli animali che vengono rappresentati assumono un valore totemico. Hillmann ha scritto un magnifico libro, Il codice dell'anima, in cui si sforza di mostrare quali sono i segni dell'anima nella nostra vita e nel nostro quotidiano. L'anima si manifesta come daimon, demone, che orienta la nostra vita e non ammette diserzioni. Essa la si rintraccia nelle coincidenze fortuite e in quello che noi chiamiamo destino, se manteniamo vigile l'attenzione possiamo scoprire per che cosa siamo al mondo. Aristotele la chiamava causa formale. Per questo motivo il mio libro l'ho voluto impostare come un dialogo platonico con un giovane architetto alla ricerca d' identità. La crisi del nostro tempo sta proprio nella frattura fra le generazioni: per dirla con il titolo di un libro di Vittorino Andreoli, è una società senza padri,  questo  l'università di massa ha provocato, dunque per ritrovare l'anima bisogna recuperare il dialogo interrotto fra maestri e allievi, un dialogo socratico che attraverso l'arte maieutica faccia emergere il nocciolo di verità in noi di natura estetica e sacra. L'incalzante efficacia comunicativa del dialogo soddisfa e al contempo suscita la curiosità propria del discepolo, dando seguito al fluire di una riflessione di carattere universale. La globalizzazione  e la crisi ecologica segnano profondamente il nostro tempo, ma non ne sono protagoniste: la domanda di felicità e bellezza resta infatti il bisogno primordiale che l'architettura e l'arte sono chiamate a soddisfare, attraverso il ritrovamento dell'anima appunto e del suo codice per l' elaborazione di una estetica del nostro tempo che non sia al servizio del potere ma della vita. Il libro L'altro architetto, Edizioni Casagrande, è in vendita a 9 euro presso Hoepli e Milano libri.

lunedì 3 febbraio 2014

Nuovo umanesimo?

Dove va la società? Siamo nell'epoca della tecnica ,ovvero della razionalità funzionale, dicono i filosofi, ma funzionale a chi? Al potere del denaro che è ristretto in poche mani e pilota le scelte economiche e politiche. Secondo alcuni non c'è scampo: è finita l'epoca dell'umanesimo e con essa la possibilità di invertire la rotta verso il baratro dell'autodistruzione. Io non son d'accordo con queste cassandre che fanno delle loro funeste previsioni un motivo di fama e di trionfo del loro ego. Ci vuole un nuovo umanesimo. In fin dei conti l'uomo a livello profondo è sempre uguale e le sue aspirazioni sono fondamentalmente sempre le stesse: vogliamo infatti essere felici, relizzarci,scoprire il significato della nostra esistenza e compierlo, nonchè acquisire il senso della connessione con il Trascendente. Il problema è come vogliamo realizzare queste mete. Vi sono quelli che ritengono che il loro destino sia quello di dominare e cercano con sempre più dominio un surrogato di eternità, sono per lo più coloro che cercano il potere a tutti i costi, vi sono altri che si rifugiano nelle religioni trovando nei riti e nei dogmi un appagamento al loro bisogno di infinito, gli uni non escludono gli altri ovvero a volte la religione copre l'esigenza di dominare, infine esistono i poeti, i mistici e i filosofi ovvero quelli che si immergono nel mare dell'essere e ne emergono con verità ineffabili. Questi ultimi sono i più creativi perchè sono i più distaccati dall'egolatria che prevede il culto della personalità e l'illusione che il potere sia succedaneo di immortalità, come del resto il sesso, non a caso Platone li aveva indicati come i Custodi. Purtroppo di queste tre categorie la prima è quella che è disposta a tutto pur di avere il Potere ed è anche quella che alla fine la spunta meglio sui poeti e i filosofi. In verità anche nelle democrazie noi mandiamo in genere al potere il peggio della società, basti vedere gli scandali di sesso e di denaro dei nostri politici  che ultimamante riempiono i giornali. Inoltre i primi sono facile preda, proprio perchè hanno una personalità incompleta, di delirio di onnipotenza e da qui discendono tutte le degenerazioni che abbiamo osservato nel corso del' 900.  Il sesso, proprio perchè è il  portatore della vita, per questi diventa un'altra illusione di potenza e di immortalità e ciò vale sia per gli uomini che per le donne. A questo proposito basti pensare ai tempi dell'impero romano dove Messalina, prima moglie di Claudio, narra la cronaca di quell'epoca, si mascherava e faceva la gara in un lupanare con la più famosa prostituta a chi aveva più amplessi in un giorno. Come si vede nulla è nuovo sotto il sole per quanto riguarda le possibili degenerazioni di potere e di sesso, sono del resto arcinote le perversioni di Hitler. Ma forse proprio per questo si può pensare di correggerli. Come? Non è facile dare suggerimenti ma gli effetti di queste storture dovrebbero essere sempre comunicate da una generazione all'altra. Hanno ragione gli ebrei a temere che le nuove generazioni dimentichino la Shoah, il negazionismo ha questo scopo far dimenticare gli effetti della follia per illudersi di nuovo con il Potere.

sabato 25 gennaio 2014

Scienza e conoscenza

Lontano da noi l'idea di demonizzare la scienza. A quest'ultima si debbono infatti innumerevoli benefici in vari campi: quello medico ad esempio o quello delle comunicazioni, tanto per citare due settori in cui la ricerca scientifica ha fatto passi da gigante e continua a farli. In ambedue vi è stato un indubbio beneficio per le persone. Basti pensare agli antibiotici che hanno debellato malattie tradizionalmente mortali, come la tisi ad esempio, personalmente sono un beneficiato della pennicillina che a tre anni mi ha salvato dalla broncopolmonite. Nella comunicazione hanno reso possibili contatti diretti e liberi, in tempo reale anche a grande distanza, con internet e la telefonia mobile. Vi immaginate i fanti della prima guerra mondiale con il telefnino: "Ciao mamma vado all'assalto". Fuori dallo scherzo si potrebbe dire che non sarebbero stati possibili i segreti militari o gli effetti delle battaglie manipolabili dalla propaganda. La ipercomunicazione che oggi lamentiamo in questo senso è benefica. Ma come tutti gli strumenti può essere usata male. Marc Augè sentenzia che la contemporaneità genera tre eccessi, di tempo, di spazio e di individualità,  diventano storia fatti relativamente vicini nel tempo, arrivano a noi fatti che accadono lontano  e questi incidono sulla coscienza della persona che è troppo isolata e sola.  Nel nostro tempo dobbiamo distinguere dunque scienza da scientismo.  Quest'ultimo è l'idolatria della prima nonchè della tecnica sua applicazione e come tutte le idolatrie frutto di un pensiero assolutista che presume di possedere la Verità e quindi impermeabile a qualsiasi dubbio. Lo scientismo impedisce la conoscenza come coscienza della totalità. Il rischio di questo atteggiamento è che ogni cosa venga giustificata a priori come prodotto della scienza, la quale nel mondo attuale si è fortemente specializzata e parcellizzata. Ogni sapere abbraccia un settore specifico senza più contatti con il tutto. Ogni ricercatore si specializza solo nel suo campo perdendo la capacità di contestualizzare il suo sapere ma giustificandolo solo in relazione al metodo scientifico e non al suo fine, che dovrebbe essere quello di essere utile. Si perde così la  coscienza della responsabilità globale. Se uno è ad esempio competente in un qualunque  settore della chimica non gli importa sapere che fine faranno le sue ricerche. Non si può negare che oggi queste vengano spinte dagli interessi delle multinazionali del denaro, lontane da aspirazioni umanistiche, che lucrano sui nostri bisogni, anche fittizi,  tramutandoli in affari e trasformandoci così in consumatori passivi.

sabato 18 gennaio 2014

Apologia di un disertore



Avevo un prozio che aveva fatto la  Grande Guerra (di cui quest'anno ricorrono i cento anni )  e durante la ritirata di Caporetto ha disertato: è tornato a casa ed è rimasto nascosto in un armadio fino alla fine della guerra, avvenuta otto mesi dopo, per paura che i carabinieri lo scoprissero e lo fucilassero.  Infatti i disertori venivano condannati alla fucilazione che veniva eseguita con processi sommari. I soldati della prima guerra mondiale o venivano uccisi dai nemici  o dai propri superiori se non andavano all'assalto.  Forse quello zio si sarà sentito in colpa per aver disertato ma oggi, se fosse ancora in vita, gli direi che ha fatto bene e che quelli che disertavano erano i migliori elementi di quella gioventù votata al macello da una cultura militarista esaltata rappresentata da generali tronfi e paranoici e da politici irresponsabili. Si dirà che i tempi erano quelli e che i paesi dell'Europa occidentale erano abituati a risolvere le loro controversie mediante l'uso delle armi,  costume  vecchio di millenni, ma nulla vieta di rileggere oggi quegli eventi alla luce di un pensiero ecologico e sistemico che pone sotto nuove prospettive la retorica della quarta guerra di indipendenza e della cosidetta vittoria. Sono passati solo cento anni in fin dei conti, tre generazioni, l'aggressività  si è focalizzata in altri ambiti, gli stati in guerra sono diventati amici e fanno parte della Comunità Europea, hanno la stessa moneta e gli stessi interessi. I milioni di giovani morti nelle trincee per che cosa sono morti? "Chi per la patria muor vissuto è assai" recita un antico adagio per giustificare le giovani vite sacrificate nelle guerre ma non è così. Il concetto di patria è una stortura romantica voluta dai potenti che litigavano per pezzi di territori che ritenevano di dover annettere ai propri confini  per false questioni di sicurezza o di prosperità. La guerra è la negazione assoluta della creatività perchè figlia della paura e della rabbia, Von Clausewiz  diceva che essa non è nulla più che la continuazione della politica con altri mezzi, ma sono questi ultimi a fomentare le guerre. La Grande Guerra  fu la prima generata dall'industria e dalla tecnica.  Quest'ultima si contrappone all'homo religiosus, ovvero cercatore di bellezza. Alcuni storici indicano le due guerre mondiali del 900 come un'unica guerra durata quarant'anni con un' intervallo di venti perchè le ragioni dei due conflitti erano le stesse e il secondo frutto delle frustrazioni, dello spirito di vendetta del primo e della politica degli armamenti voluta dall'industria bellica. Lev Tolstoj indicava come soluzione al problema delle guerre la scomparsa  del militarismo, in effetti questo produce la macchina bellica  ovvero quella organizzazione rigida regolata dai rapporti di obbedienza assoluta agli ordini dei superiori da parte degli inferiori, che poi erano i poveri contadini e operai in un frainteso valore dell'onore e del coraggio.  Per questo motivo sono orgoglioso di questo prozio disertore. Dopo ogni guerra vi è sempre  stato un abbassamento culturale come un ritornare indietro di decenni perchè dopo ogni conflitto vi è un periodo, che dura almeno la vita dei contendenti, in cui si vive in una semplificazione fasulla, amico nemico, in un riduttivo dualismo determinato dai sensi di colpa, dalla paura e dalla rabbia degli ex nemici e queste emozioni nascoste impediscono la crescita. E' anche da notare che le guerre fanno sviluppare maggiormente la tecnologia, da cui l'opinione di alcuni che le guerre contribuiscano al progresso, ma fanno regredire la coscienza per cui a fronte di uno sviluppo del sapere tecnico abbiamo un'etica che è rimasta quella di duemila anni fa. Se in occidente, nonostante il cristianesimo,abbiamo ancora un'etica primitiva, è proprio a causa delle continue guerre che nel contempo però hanno sviluppato in modo abnorme la capacità distruttiva. Ecco allora apparire il significato dell'esortazione evangelica di amare il proprio nemico o di porgere l'altra guancia, è un' indicazione di cammino iniziatico che porta alla personalità totale, al sè appunto e al sentimento dell'appartenenza, alla bellezza dunque. Una proposta: perchè non togliamo dalle piazze e dalle vie delle città i nomi di soldati, generali e battaglie, ogni riferimento alle guerre in sintesi?

lunedì 6 gennaio 2014

Pace agli uomini di buona volontà

Il primo dell'anno dal 1968 la Chiesa Cattolica celebra la giornata mondiale della Pace. Parlare di questo argomento è sempre arduo perchè si rischia di essere ipocriti o superficiali, tenteremo di non esserlo ma mi preme trattarlo visto che siamo a inizio anno . Nel primo caso ci stanno tutti quei potenti (uomini e governi) che non rinunerebbero per nulla al mondo al loro potere e sono sempre intenti ad armarsi per difenderlo. I Romani antichi dicevano: Si vis pacem para bellum, è evidente che questa pace è ottenuta con la paura e il desiderio di pace è fittizio, è solo desiderio di dominio. Nel secondo caso ci stanno moltissimi cosidetti pacifisti e principalmente quelli che credono che sconfiggere la fame e la povertà porterà automaticamente alla pace, vale a dire che con strumenti di natura economica si migliora la natura umana. Con questo non voglio dire che le disuguaglianze e le ingiustizie non creino motivi di conflitti ma bisogna tener conto del fatto che sia i popoli poveri che quelli ricchi hanno da sempre esaltato le guerre come mezzo per risolvere le controversie di qualsiasi natura. Dunque mi direte che si deve fare? Intanto bisogna avere la consapevolezza della difficoltà di raggiungere una cultura di pace: l'uomo non è solo animale oeconomicus e quantunque la sua natura fosse anche pacifica, con tutti i dubbi del caso visto che il cristianesimo prevede un Salvatore che dice "vi lascio la pace vi do la mia pace", e il buddismo indica il Budda come colui che raggiunge l'illuminazione, cioè la pace, dopo grandi prove, ha comunque prodotto culture che hanno esaltato la guerra. Il fatto che Marte nell'antica Grecia fosse uno degli dei più importanti non era un caso. Noi oggi a nostra volta siamo immersi in una cultura bellica. Basti pensare al successo dei film di guerra ma anche alla stessa vita quotidiana e all'economia dove si mima il linguaggio militare. Vi è un bel libro di James Hilmann che sottolinea questi aspetti  della nostra società e si intitola: Un terribile amore per la guerra. Per quanto riguarda il Nobel per la pace, che viene attribuito ogni anno a un personaggio noto per il suo impegno in questo ambito, non incide certo sulla mentalità comune. L'unico italiano che ha meritato il premio fu Ernesto Teodoro Moneta nel 1907, un milanese il cui busto si erge solitario e abbandonato nei giardini pubblici di Piazza Cavour, dimenticato da tutti. Questo ex garibaldino pentito era un cultore di Emanuele Kant, il filosofo tedesco indicava due condizioni strutturali per ottenere la pace perpetua: l'abolizione degli eserciti permanenti e la creazione di un organismo internazonale riconosciuto da tutti per dirimere le controversie fra Stati. Che ne è stato dei suoi suggerimenti dopo circa duecento anni? L'ONU è ferma agli equilibri della seconda guerra mondiale e quindi dominata dai vincitori e se l'Europa dovesse abolire gli eserciti addio economia. Per ora l'unico deterrente di una guerra mondiale è la paura delle armi atomiche e questo non è un buon viatico sulla strada della vera pace. Dai tempi di Moneta nel frattempo la psicologia ha scoperto l'inconscio e si è potuto constatare quanta influenza abbia nei comportamenti quotidiani e quanto l'aggressività umana risulti generata da pulsioni inconsce difficili da individuare  perchè risalgono la storia, personale e della società di appartenenza.
Allora non vi è nulla da fare?  Una terapia vi sarebbe ed è quella suggerita dal mito che tanta parte ha nel nostro inconscio appunto di uomini occidentali. Marte viene disarmato da Venere, dea della bellezza. E' quindi nella soddisfazione del bisogno di bellezza e nel riconoscerne la sacralità che si può evitare la guerra, per questo è necessario un nuovo paradigma che esalti valori non marziali. Il femminismo, che finalmente torna a farsi sentire, in parte ha contribuito a sradicare vecchi archetipi maschili legati alla figura del guerriero.Si dovrà dunque incrementare nella società quei modelli e quei valori che aprono al dialogo, alla comprensione ed al compromesso anzicchè alla competizione, alla durezza, all'intransigenza ed alla combattività. Un pensiero ecologico,  sistemico, tradizionalmente più femminile che maschile, che superi le dicotomie. Venere apre al piacere dei sensi, ai tempi lenti , alla qualità ed alla cultura. Per questo vanno educati gli educatori affinchè esaltino una conoscenza del bello e non sarà certo la scienza parcellizzata al servizio di una economia ancorata ai valori dell'avere e del vivere in superficie, anzicchè a quelli dell'essere, che sarà in grado di fare questo.