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lunedì 25 gennaio 2016

Poetica del paesaggio agricolo storico

                                      Papillon, acquarello su carta

 Oggi il naturale (nel senso di evoluzione senza intervento dell’uomo) non prevale più, è anzi in strettissima minoranza sulla crosta terrestre e in specie da noi in Europa, e in Italia in particolare,  per cui quello che rimane è ormai cosi poco che è sempre bello interessante e necessario. Il concetto di bellezza insomma appare spostato dall’arte alla natura, mentre prima bella era solo l’arte e la natura era bella dove il concetto estetico dominante trovava la propria conferma. Per dirla con Kant “ La natura era bella quando aveva l’apparenza dell’arte. A dire il vero l’ambientalismo più serio oggi si accorge che non vi è contraddizione tra naturale e artificiale qualora l’uomo abbia interpretato le sue esigenze più profonde e non abbia dato libero sfogo al suoi impulsi distruttivi, infatti Kant aggiunge:”E l’arte non puo’essere bella se non quando noi, pur essendo coscienti che è arte la consideriamo come natura”. L’artificiale è il naturale trasformato e se è la creatività che ha prevalso (come profonda natura genuina dell’homo faber) dà altrettanto benessere che il naturale autentico, anzi lo stesso naturale autentico, come si diceva, risulta in questa logica prodotto di una scelta creativa dell’uomo che individua come necessario e bello lasciare le cose come stanno. In sostanza questo concetto è assimilabile  al fare di coloro che creano opere d’arte raccogliendo e scegliendo elementi naturali per lasciarli cosi come sono.  La creatività dell’uomo sta nella selezione, nella cernita, nel riconoscere la superiorità delle forze creatrici della natura, nell’essere umile e scoprire che in determinate circostanze è meglio non intervenire. Questo non significa disprezzare la propria opera modificatrice, anzi significa valorizzarla individuando dove questa è necessaria e quindi “bella” e dove  no e quindi brutta.  Passando dunque a considerare il paesaggio agricolo storico possiamo dire che esso è il risultato della modificazione del selvaggio mediante elementi naturali, o meglio, mediante elementi organici viventi. L’uomo è stato guidato nella trasformazione agricola da preoccupazioni ben lontane da intenti estetici coscienti, pero’ nel paesaggio storico si nota un aspetto caratteristico dell’attività umana: quando prevale la creatività, sia pure inconsapevole e determinata da necessità contingenti, si ha benessere psichico. L’attività agricola tradizionale, in effetti, costituiva l’incontro creativo tra l’uomo e la natura: essa viene conosciuta e incanalata verso una maggiore capacità di vita, ecco perchè il mondo rurale ha sempre destato sensazioni di benessere. L’agricoltura tradizionale ha si  modificato l’ambiente naturale ma plasmandolo con le proprie mani nello sforzo umile e generoso di adattare il naturale ai bisogni fondamentali di vita e quindi a uno scopo creativo, non distruttivo.Le  mani dell’uomo e la terra hanno costituito una sintesi che, mossa da questo fondamentale intento creativo di dare più vita, più fiori, più frutti, il più delle volte ha prodotto un risultato anche estetico. Spesso il paesaggio che ne deriva è il risultato di uno sforzo collettivo che inconsciamente è artistico se per arte con Carl G. Jung si intende la capacità di esprimere le forze primigenie del nostro inconscio collettivo che sono tensione tra materia e spirito, tra profano e religioso sempre alla ricerca di nuove sintesi al fine di una esperienza del tutto. O anche se, con William Morris, si afferma che l’arte è il prodotto della gioia del proprio lavoro a un fine creativo. Se ancora, per godimento estetico si intende la capacità , attraverso l’arte , di  raggiungere l’intuizione del tutto e il sentimento dell’appartenenza quale visione, quale panorama più di quello di un paesaggio agricolo storico dona questa sensazione? Non per nulla un personaggio come Francesco d’Assisi, che è uno dei pochi esempi occidentali del sentimento dell’appartenenza, cresce in un ambiente  antropico-naturale come l’Umbria che esprime ad altissimo livello la sintesi cui si è accennato. Tutto cambia con l’introduzione delle tecnoscienze in campo agricolo alimentare in epoca moderna.

lunedì 28 dicembre 2015

Dell'onestà e della coerenza


  Mi chiedo se oggi l’onestà è ancora una virtù. Che cosa vuol dire essere onesti in una cultura che esalta il successo ottenuto a qualsiasi costo attraverso la furbizia e l’abilità?  Sono forse considerati ingenui gli onesti? In politica poi, soprattutto dopo Tangentopoli che doveva ripristinare questa virtù pubblica, vi è il tripudio della spregiudicatezza e dell’astuzia.  Per non sembrare banali e non perderci ricorriamo dunque alla etimologia e  analizziamo  questo termine ed il suo significato: deriva dal latino honestas-atis che viene da honus-oris, onore in italiano. Dunque anticamente l’onestà aveva a che fare con l’onore.  Era cioè il condensato di tutte le virtù che, come affermava Aristotele nell’Etica Nicomachea, avevano come scopo la bellezza di una vita felice perchè feconda di buone relazioni basate sulla fiducia. L’uomo onesto infatti era degno di fiducia perchè incapace di mentire e di tradire. Il contrario di onestà è disonestà ovvero uomo disonesto è colui che tradisce  e dunque non ci si puo’ fidare. Fiducia e onestà  andavano a braccetto.  Oggi viviamo in un mondo con tante fedi ma scarsa fiducia in una società individualista e liquida, secondo la definizione di Bauman, dove l’onestà è diventata una qualità svalutativa: si dice infatti onest’uomo come dire poveruomo, onesto praticante di una professione come a dire che non eccelle. Eppure continuiamo a sentire affermare che ci vuole fiducia: il Governo ce la chiede, l’economia senza  va in crisi e tutto dipende da essa. Le relazioni tra gli uomini si basano sulla fiducia ma invece oggi si diffode la diffidenza che accompagna lo scontento per aver abdicato all’onestà.  Per essere onesti bisogna non tradire la verità e cercarla sempre con costanza e coerenza, anche se questa sfugge a volte. La coerenza, attributo della bellezza per gli antichi, ultimamente è caduta in disuso: coherens in latino significava strettamente unito insieme,  cioè non in contraddizione con i propri obiettivi e bisogni profondi che per l’onesto sono il bene comune.Oggi si fa a meno di tutto questo e si considera l’onesto un perdente ma attenzione perchè senza onestà vi è la corruzione e la malattia. Si mente anche a se stessi  pur di apparire secondo i modelli imposti dalla pubblicità e cosi ci si ammala, alcuni psicologi affermano infatti che la malattia è un rimedio della coscienza per renderci onesti, questo vale sia per l’individuo che per la società. Per quest’ultima la patologia consiste nella conflittualità permanente, che qua e là provoca guerre e distruzioni. Ci si chiede poi che cosa spinge dei giovani cresciuti in occidente, relativamente benestanti, a decidere di arruolersi con il fondamentalismo arabo. Non è forse questa  alienazione dalla bellezza della virtù regina?

martedì 24 novembre 2015

Periferie


                                      Olio su tela, Nevicata in periferia

  La cosidetta rigenerazione urbana, termine  diventato di moda  tra gli urbanisti o presunti tali,  passa principalmente attraverso il risanamento delle periferie ma questa operazione non è facile. Si tratta di agire, attraverso interventi, sia sulla popolazione sia sul costruito che possono durare anche degli anni se non decenni. Poichè le amministrazioni comunali hanno una durata di cinque anni e spesso le azioni non sono eclatanti,  non sono cioè da esibire per le elezioni, il più delle volte quindi vengono trascurate quelle opere che sovente sono invisibili ma che danno l’avvio ad un processo di recupero. Invertire il degrado non è operazione da poco ma in alcuni casi bastano pochi e semplici interventi  che debbono pero' durare nel tempo dando la sensazione di una cura che prosegue.  A volte invece necessita intervenire drasticamente con l’abbattimento di interi edifici o quartieri irrecuperabili che determinano intorno malessere e trascuratezza, dove ad esempio vi sono situazioni malavitose.  Quello che urge prima di tutto è una conoscenza approfondita della situazione che metta in evidenza le cause del degrado e le potenzialità del sito.  Occorre fissare parametri, fare interviste e viverci  per sapere il livello di squallore della vita abitativa e senza la partecipazione degli  abitanti non è possibile recuperare alcunchè.  Le periferie sono una conseguenza della rivoluzione industriale, prima non esistevano: vi erano case per poveri e per ricchi mescolate dentro le mura cittadine, magari certi quartieri erano malfamati ma non erano rifiutati. Con l’avvento dell’industria si destinano aree esterne per gli operai inurbati dalla campagna e di conseguenza l’idea della periferia come zona di grado inferiore, di serie B rispetto al resto di città, nasce da li’. Oggi non è cambiato nulla, salvo le norme igieniche, ed ammassandosi più della metà della popolazione mondiale nelle aree urbane le periferie si sono estese a macchia d’olio e sono piene di cosidetti non luoghi. La loro integrazione è fondamentale per il benessere cittadino.  Per invertire il processo di degrado è necessario guardare il contesto periferico come un insieme di relazioni tra gli abitanti e tra questi e gli edifici. I ghetti nascono dove una parte viene abitata solo da soggetti ritenuti il rifiuto della società. Per risanare non serve inserire funzioni nobili, quali un teatro o un’ università, quando i residenti non sono coinvolti. Ogni intervento deve essere finalizzato  a servire chi abita e non a pompare popolazione dall’esterno  solo per alcune ore della giornata o giorni della settimana. Bisogna aprire ai bisogni primari degli abitanti e questo consiste in una casa decente in un contesto sano e vitale che si manifesta anche nelle piccole cose come l’arredo urbano, i giardini fioriti, orti di prossimità, negozi di vari generi,  non solo centri commerciali, biblioteche e librerie, sale riunioni , centri sanitari , sociali, religiosi ecc. La popolazione dovrebbe essere composta da diverse classi di cui la media prevalente, incentivata da un buon housing sociale. Gli interventi pubblici per i meno abbienti devono essere  dimensionati sul contesto e non essere accorpati e incombenti. Dove saranno necessari abbattimenti si creeranno giardini o verde coltivato. La  natura ha un ruolo fondamentale nel processo di inversione del degrado perchè necessita cura e il fatto contribuisce a generare la sensazione di avere un potere amico che si prende a cuore il benessere dei cittadini, e gli alberi ben curati ne sono la prova. E’ essenziale recuperare la sacralità del territorio e della vita su di esso. Poichè le periferie non hanno un passato dovrebbe essere valorizzato ogni cimelio e ogni rudere o reperto antico atto a ripercorrere la storia del luogo  al fine che l’abitante si senta di far parte di un substrato vitale con una sua dignità nel quale si sente inserito. Il sentimento dell’ appartenenza è fondamentale per evitare fenomeni di alienazione e di estraneamento generatori di disagi psicoemotivi. La bellezza, rispetto per la vita, la si deve recuperare nelle piccole dimensioni e nei cicli stagionali, quindi fiori e frutti saranno il nuovo skayline delle periferie.


giovedì 22 ottobre 2015

Cibo e paesaggio


                                     Verdure dell'orto, acquarello su carta

  Circa 10.000 anni fa in zone del pianeta particolarmente fertili come il delta del Nilo o del fiume Giallo nasceva l’agricoltura, cioè l’uomo smise lo stato migratorio  alla ricerca di prodotti della natura di cui cibarsi per diventare stanziale coltivandoli. Da quel momento la produzione di cibo, in misura più o meno accentuata, apporta modifiche al territorio e quindi al paesaggio naturale. Queste modifiche seguono i cambiamenti dell’economia agricola nelle varie epoche come sottolineava Emilio Sereni nella sua Storia del paesaggio agrario italiano, a partire dalla colonizzazione greca fino ai giorni nostri, edito nel 1961 da Laterza. Le colture seguono dunque la cultura e viceversa. Cosi l’alimentazione di popolazioni sempre più numerose, proprio grazie alla possibilità di reperire il nutrimento, ha come conseguenza l’uso del disboscamento per ricavare terreno agricolo dove coltivare piante che lo producano. Fintanto che la città viveva delle coltivazioni delle terre del circondario anche il cittadino si rendeva conto della stretta interdipendenza tra uomo e natura. La produzione a km zero, come la si definisce oggi, costituiva proprio la più stretta relazione fra il produttore ed il consumatore, infatti quando nasce la città, come ci ricorda Louis Munford, nasce anche la separazione tra chi coltiva,  contadino, e chi consuma,  cittadino. Ma prima dell’epoca moderna questa frattura non arriva alla alienazione dalla coscienza  del consumatore inurbato di appartenere alla natura e di dipenderne. E’ in epoca industriale che cio’ avviene : quando cioè nascono le grandi compagnie per la produzione alimentare. Anche in questo campo le tecnoscenze introducono la convinzione che la natura sia dominata e sia un pozzo senza fondo con il conseguente suo impiego ai fini del profitto in una economia del denaro.  Oggi notiamo che più della metà della popolazione mondiale abita le aree urbane, cioè quelle zone cementificate prive di coltivazioni dove il cibo arriva da molto lontano seguendo le leggi del mercato tramite i mezzi di trasporto sempre più rapidi.  Nel resto del globo il territorio è soggetto ad ogni tipo di sfruttamento a fini agricoli o estrattivi e le aree selvatiche rimangono una stretta minoranza continuando ad essere minacciate dai disboscamenti con grave pericolo per la biodiversità, come recita la stessa Enciclica di Papa Francesco, Laudato si. Contemporaneamente questa cultura dello spreco e del consumo rapido produce grandi quantità di rifiuti  il cui smaltimento va a turbare gli equilibri naturali, in genere nei paesi più poveri.  Il paesaggio cosi non viene solo distrutto dall’industria edilizia e dalla cementificazione selvaggia ma anche dalla scriteriata produzione alimentare. Esempi sono le monoculture, le serre, le stalle, le porcilaie, i pollifici ecc. Tutto questo richiede una regolamentazione, che spesso non esiste, che tenga presente che « non di solo pane vive l’uomo » ma anche di bellezza e particolarmente in Italia dove il paesaggio costituisce una risorsa anche economica che va tutelata e rispettata trovando un equilibrio tra le due necessità. Del resto sta avanzando una cultura ecologica che promuove produzioni agricole anche nelle aree cittadine attraverso l’uso di orti di prossimità e l’utilizzo di alberi da frutto nei parchi urbani. Congiuntamente si riempiono terrazzi e tetti piani di vegetazione provocando cosi la nascita di una nuova coscienza che contribuirà alla salvaguardia della natura e questa è la migliore garanzia per il futuro delle nuove generazioni. Questo doveva essere messo inevidenza da EXPO e non la gastronomia dei vari paesi partecipanti insieme alle multinazionali del cibo. Si discuterà di questo giovedi 5 novembre mattino alla Società Umanitaria nell’ambito del convegno Cibo e Paesaggio.



giovedì 24 settembre 2015

Dell'architettura

                                           Coldirodi, acquerello su carta

   Oggi si dice che non esiste uno stile.  Ma che cosa è uno stile ? Ecco la risposta tradizionale : lo stile è l’espressione formale di una cultura. Gli ordini classici sono stili, anzi il termine stesso si rifà alla colonna, ognuno di essi si riferisce alla cultura di popolazioni greche che li hanno prodotti. L’ordine dorico è relativo ai Dori, popolazione severa e frugale poco dedita alle sottigliezze e ai sentimenti, non cosi gli ordini ionico e corinzio. Oggi non esiste più uno stile perchè la cultura occidentale liberista ha dato via libera ad ogni espressione provocatoria manipolata dai media che hanno una funzione totalmente diversa rispetto alla fruizione contemplativa della bellezza. Cosi non esiste più una forma riconosciuta che esprime il carattere della cultura dominante. Tutti possono produrre quello che vogliono purchè abbia le caratteristiche che servono per stupire e far parlare i mass- media. Il cosidetto stile internazionale è fondamentalmente assenza di stile. E’ chiaro che la provocazione reiterata finisce pêr diventare omologazione nella categoria del brutto, inteso come superficiale e senza cura. La globalizzazione produce identiche brutture nella banalità del fine, che non è più quello di aiutare a vivere felicemente ma quello di comunicare magniloquente e si sa che grdare fa male  anche se a volte serve, ma se gridano tutti alla fine si avrà un baccano infernale e non ci si intenderà più.  Come ci si puo’salvare ? A parer mio recuperando il significato della bellezza che presuppone un rapporto diverso con la natura dentro e fuori di noi e la riedificazione della  promessa di felicità che è insita nella ricerca di armonia fra uomo e ambiente. Un ritorno al regionalismo ? Non propriamente, nel senso che in architettura si sono sempre succeduti periodi di espansione e di contrazione. Oggi abbiamo  bisogno più di riflessione e di rispetto per la natura e il contesto perchè vi è anche una revisione dell’idea di progresso che sta alla base della cultura modernista. Va superata anche la dicotomia fra classico e anticlassico : c’è bisogno di più modestia. I temi cambiano : alcuni rimangono ma vengono trattati in modo nuovo, altri si aggiungono al repertorio dell’architettura, le forme si liberano dalla dipendenza di stili passati, come è giusto, ma spesso sono frutto di manie di grandezza senza nessun rispetto per la cultura ed il contesto. La bellezza di un nuovo intervento infatti ha due componenti : la cura e l’impegno di chi progetta a non violentare  il tessuto esistente, sia pure rapportandosi per contrasto, e la disponibilità della popolazione locale ad accettare il nuovo.  Quest’ultimo fatto è legato alla dimensione  e ai tempi. Un intervento che stravolge in pochi anni  il paesaggio consolidato è vissuto come una violenza e una scarsa considerazione che lo fa apparire brutto. Nel tempo questo giudizio puo’anche cambiare perchè i segni della vita lo ricoprono di nobiltà e l’abitudine lo rende familiare. Ma se questo non succede rimane un monumento senza senso e seza vita. Resta un non luogo dove si realizzano i tre eccessi della modernità : eccesso di spazio, eccesso di tempo ed eccesso di individualismo. 

venerdì 4 settembre 2015

La giusta politica


   “Uscire da soli da un problema è avarizia, uscire insieme è politica”. Questa è un’affermazione di Don Milani ma purtroppo vi sono problemi da risolvere in solitudine e problemi comuni da risolvere insieme, è tutta una questione di livelli. La scuola di Don Milani che ha influenzato  il pensiero sull’istruzione negli anni sessanta settanta andava bene come esperimento di buona educazione , di generosità e di amore di chi la faceva ma ha dimostrato di non essere applicabile. Spesso ha dato adito al pressapochismo e alla degenerazione  della scuola di Stato in senso buonistico e missionario togliendo agli insegnanti il giusto riconoscimento come lavoratori. Lo vediamo attualmente nella vicenda delle assunzioni e dei trasferimenti dove i soggetti vengono sbattuti  a centinaia di chilometri di distanza da un computer come se non importasse un fico secco che la scuola fosse integrata al territorio. “I care”, sempre di Don Milani, è una bella affermazione ma condita con protagonismo e smania di potere ha visto anche distorsioni inaspettate, soprattutto in relazione ai mass-media e al loro potere. L’impegno allora diventa narcisismo ed egolatria.  In  politica l’esibizione dei buoni sentimenti è irritante perchè sa di falsità o di “captatio benevolentiae” che, amplificato dai media determina modelli di perfezione sotto i quali si intravede l’attaccamento al potere. Le leggi dell’equilibrio non si ingannano e ad una coscienza troppo buona corrisponde un inconscio di verso contrario. Al potere non si chiede di essere buono ma giusto e, se si vuole, creativo. Se uno vuol essere buono si ritiri in un convento oppure non lo dica a nessuno. Creativo invece vuol dire saper trasformare  i problemi in occasioni di maggior benessere sia a livello individuale che collettivo. Non vuol dire non avere problemi o scansarli e nemmeno andarseli a cercare, vuol dire abbandonarsi alla vita e affrontare quello che viene incontro sapendo che non lo puoi evitare. Oggi una  politica creativa  vede il problema dei migranti come una occasione per rivedere i rapporti fra Stati e la stessa concezione dell’Unione Europea e la sua politica. E’ importante a parer mio che si consideri il fatto sostanziale che l’Europa in settant’anni sia diventata un luogo di pace dove sono garantiti i diritti umani e venga agognata come meta da chi subisce gli effetti di conflitti e rivoluzioni violente in paesi dove la vera democrazia non è ancora arrivata. Il flusso dei profughi di conseguenza, fintanto che in quei posti ci saranno guerre, continuerà senza interruzione. E’ necessario quindi agire affinchè queste guerre cessino e la politica internazionale deve operare in questo senso  per evitare migrazioni apocalittiche. Tutto questo si ottiene anche individuando i  produttori di armi che lucrano su questi conflitti. E’ anche importante vedere che gli immigrati comunque sono necessari all’economia europea ed un certo numero non è dannoso ma anzi auspicabile. Il problema sta nello stabilirne senza isterismi e xenofobie, fomentate da demagoghi interessati, il quantitativo  e poi legalizzare il loro trasferimento senza abbandonarlo alle mafie. La fotografia del bambino morto sulla battigia ha scosso le coscenze di tutto il mondo speriamo che questo serva a uscire insieme da questo problema.

giovedì 13 agosto 2015

Per Vittorio Borachia


                           La città ideale, acquarello e pastello su carta 

 E’ mancato in questi giorni di agosto un amico, collega e maestro, Vittorio Borachia. Sono addolorato e voglio ricordarlo parlando di lui per quello che ho potuto conoscerlo. Era essenzialmente un uomo buono, con un’etica piuttosto stoica. Mi risulta che a vent’anni era in marina durante la guerra e forse un po’ di quella disciplina marinaresca  lo aveva contagiato anche nella vita, aveva infatti le virtù dei grandi navigatori : onestà, coraggio, solidarietà, spirito d’avventura, riservatezza e culto dell’amicizia. Era infatti nativo di La Spezia, città che lui amava anche se viveva a Milano ed insegnava Urbanistica alla Facoltà di Architettura. Ho lavorato con lui ai piani delle oasi naturalistiche del mantovano, nei primi anni ottanta, cosi ho potuto conoscere il suo pensiero e la sua cultura. Nonostante appartenesse alla generazione che aveva creduto nella tecnica, nell’industria e nel progresso scientifico, tanto che disegno,insieme a Carlo Santi negli anni 50, una poltrona pieghevole in plastica per la Tecno, lui aveva fin da giovane maturato un amore per la natura che lo porto’ ad abbracciare in architettura l’organicismo di Frank Lloyd Wright che aveva conosciuto a Taliesin West, dove aveva passato un po’ di tempo per seguire il maestro da vicino.  Di questa influenza si puo’ vedere la traccia nella casa da lui progettata per la sua famiglia sopra Albavilla in provincia di Como. La sua attività professionale tuttavia è stata prevalentemente dedicata ai piani urbanistici dove per la prima volta si nota il tentativo di coniugare lo sviluppo con la sua sostenibilità ecologica. Per lui il bello in architettura è il prodotto conseguente di una urbanistica  ben fatta dove il lavoro dell’architetto si inserisce senza arroganza e provocazione ma con misura ed eleganza, frutto di una concezione aristocratica  della sua opera, nel senso etimologico originario di « la migliore ».  Ma è  proprio sul versante dell’ecologia applicata al territorio, costruito e naturale, che osserviamo la sua novità, considerando i tempi, erano gli anni 70 e 80. Fu infatti uno strenuo difensore del paesaggio come bene da conservare, soprattutto nella sua Liguria, aimè sconvolta dalla speculazione, applicando norme e leggi atte a proteggerlo. Vittorio era politicamente un socialista riformista ed è stato uno  dei miei riferimenti ai quali è dedicato il mio ultimo libro L’altro architetto, infatti la figura dell’insegnante  nel dialogo socratico si attaglia bene alla sua persona ed alla sua attività di professore e  presidente della Fondazione Labo’.