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domenica 26 agosto 2018

Il ponte maledetto




                
Che orribile tragedia il crollo del ponte Morandi sul Polcevera a Genova ! Si rimane esterefatti di fronte alle immagini diffuse dai media ed emergono dal nostro animo emozioni confuse di pietà, rabbia e paura che ci costringono a riflettere sull’accaduto e sulle sue cause. Secondo dati recenti più del 60% dei ponti costruiti in Italia dagli anni cinquanta ai settanta sono a rischio cedimento. Cinque sono crollati negli ultimi due anni. In questo caso il destino beffardo ha fatto cadere proprio un simbolo della tecnica e della modernità di quando l’idea di progresso era diventata un’incontrastata guida in ogni ambito del fare e l’ingegneria italiana veniva ammirata in tutto il mondo. Oggi parliamo di mancata manutenzione, di disastro annunciato da molti segnali e questo ci fa ancora più arrabbiare, ci si sente fragili nelle mani di una economia che ha come primo obiettivo lucrare guadagni sempre più alti a scapito della sicurezza e del bene comune. Galli della Loggia sul Corriere si chiedeva dove fosse lo Stato e denunciava in questa scarsa idea di Stato la causa dei mali italiani. Altri commentatori hanno dichiarato che gli italiani sono contrari all’industria e al progresso e quindi hanno favorito i contestatori della Gronda che avrebbe alleggerito il traffico sul ponte maledetto. Personalmente ritengo che questo crollo, come del resto gli altri, sia invece un segnale della debolezza del concetto di progresso che aleggiava intorno alla metà del secolo scorso. Ho già scritto diversi articoli su questo Blog, e nel mio libro L’altro architetto,  di denuncia rispetto a  questa idea di progresso e di economia. Questo ponte crollato ne è l’emblema. Ciò infatti ha a che  fare con il concetto di bellezza mescolata alla volontà di potenza, da questo punto di vista era l’ogoglio di Genova che si paragonava a New York. Questa bellezza però frutto della presuntuosa sfida alle leggi della statica in nome del progresso mi rammentano l’apologo di Dedalo e Icaro. La presunzione e la provocazione sono sentimenti negativi che fanno disastri quando sono applicati all’architettura dei ponti soprattutto se non accompagnati da una manutenzione necessaria. Ma tralasciando l’intento che qualcuno definirebbe moralistico e invece cercando di interpretare la malattia e non solo il sintomo mi riallaccio ad un mio articolo del 2016, a commento  dei 50 anni dalla pubblicaione del libro di Calvino Speculazione edilizia. La cementificazione della Liguria, che lo scrittore denunciava già negli anni 60, è continuata in crescendo e l’hanno chiamata boom economico, questa è la vera causa del crollo del ponte sul Polcevera che simbolicamente ha spezzato in due le Riviere sfigurate da una politica urbanistica improntata alla « deregulation » cui è stato dato il nome di rapallizzazione  a ricordare ciò che è avvenuto nella ridente cittadina ligure.  Cause generali dunque sono state l’aumento del traffico e a monte la scelta di privilegiare il trasporto su gomma anzicchè su rotaia, queste ed altre quisquilie sempre orientate da una economia che  fa il bello e il cattivo tempo in Italia dove la politica è fragile come il ponte e la bellezza è considerata un lusso.

  
       

       

         
  


   
                 


venerdì 29 giugno 2018

Della riapertura dei navigli milanesi




C’è molta polemica sulla riapertura dei navigli. Ciascuno porta buone ragioni per il si o per il no ed è difficile districarsi fra queste opinioni. Alcuni affermano che l’opera sarà costosissima e di questi tempi sarebbe meglio impiegare quei soldi per rigenerare le periferie, altri vedono l’operazione più che altro come una trovata turistica che porta valore solo al centro città, infine altri ancora affermano che avendo fatto un referendum nel 2011,ed avendo avuto circa 500.000 si, bisogna ascoltare i cittadini e mettere mano alla riapertura. Altri, ancora per il si. dicono che l’avvio dei lavori potrebbe costituire una occasione per una presa di coscienza della situazione idraulica milanese per migliorarla. Che dire a fronte di tutte queste belle considerazioni ? Personalmente credo che ve ne sia un’altra a favore del si, che nessuno ha citato per paura di apparire patetico, ed è quella della bellezza. Questo concetto è cambiato  dagli anni venti della chiusura, impregnati di futurismo. I popoli civili hanno sempre aspirato a costruire città belle, anzi erano chiamati civili proprio per questo e la città era bella perchè offriva esempi di cura, attenzione ed amore che creavano luoghi ameni, adatti a starci bene, e questi risultavano da una mescolanza di natura e cultura  frutto della creatività umana. Fra gli elementi naturali l’acqua ha sempre avuto uno spiccato valore simbolico, è fons e origo per citare il filosofo Bachelard, soprattutto dove andava a compensare il prevalere della pietra e del cemento. Il funzionalismo del secolo scorso ha negato questo bisogno privilegiando le esigenze del traffico automobilistico e della speculazione edilizia. Quando frequentavo la facoltà di architettura negli anni sessanta un professorone di progettazione, che in seguito diventò un archistar internazionale, avendo dato come tema una scuola elementare, suggeriva di posizionarla su una piastra di calcestruzzo a cavallo di uno snodo stradale a traffico veloce. Ora questo sembra ridicolo rispetto ai nuovi gusti generati dal pensiero ecologico ma allora sembrava il non plus ultra della modernità e dell’educazione. Dicevo dunque che rispetto agli anni in cui furono coperti i navigli alla « città che sale » si è sostituita la città lenta. Ecco dunque un buon argomento a favore della riapertura poichè credo che sia il segnale di una nuova estetica, soprattutto in una città come Milano che negli anni scorsi ha pesantemente favorito nuovi massicci  interventi  squilibranti come Porta Nuova ed Ex Fiera dove ha trionfato la tecnica globalizzante, distopica e banalizzante. E’ ormai a noi chiaro che la crisi ecologica del mondo moderno sia figlia di una crisi estetica dove il bello è stato sostituito dall’utile e la natura  sfruttata a dismisura.  Per questo motivo bisogna evitare che la riapertura consista nel progettare dei laghetti da cartolina a scopo turistico che contrastano con la tradizione. Cercare l’identità perduta è una operazione delicata che richiede molto studio.

martedì 22 maggio 2018

Bellezza cultura e paesaggio



 
Potremmo partire da un’affermazione di sapore plotiniano su ciò che è brutto e cioè: quello che non viene da noi considerato, guardato, ovvero viene trascurato. Certo, il neoplatonismo non è più di moda, anche se sul concetto di bellezza ha molto indagato e ha fornito diversi spunti agli umanisti del Rinascimento, e non solo, ma  ho parlato di bruttezza. Il problema estetico oggi appare molto complesso. Intanto occorre dire che la cultura, da un punto di vista antropologico, si può definire come una risposta ai bisogni e ai problemi di un determinato popolo, in un dato periodo storico, nel rapporto con il proprio territorio e la natura, ai fini di un miglioramento della qualità della vita: infatti deriva dal latino còlere che significa “coltivare ovvero avere cura del luogo”. Nelle società agricole la cultura era legata alla terra e alle capacità dell’uomo di trarne vantaggi, poi ha acquistato un significato più ampio relativo alla capacità di produrre benessere e felicità. Essendo la bellezza promessa e frutto di felicità  quindi si può anche dire che la cultura avrebbe come compito quello di produrre bellezza. È l’insieme di usi e costumi del vivere in comune che poi si manifestano concretamente nella città. I popoli civili si differenziavano dai barbari proprio perché avevano realizzato magnifiche città. Infatti il termine civile deriva da cives = cittadino. Con la civiltà industriale le città si sganciano dalla dipendenza nei confronti del territorio circostante e quindi dal rapporto profondo, sacro, con esso. Per cui anche la cultura si stacca dal territorio e si identifica con la nazione o la lingua, o peggio la razza. Oggi nella civiltà tecnologica le culture si sono mescolate fino a formare un’unica grande cultura nell’Occidente sviluppato e industrializzato, ma ora anche in Cina e India, che domina il resto del mondo. Questa però, influenzata dagli interessi economici, ha perso ogni contatto con il suo significato profondo originario e qualcuno la definisce più un’incultura, nel senso che non è più orientata alla ricerca della felicità dell’uomo nel suo rapporto con la natura, bensì a dominare quest’ultima e dilapidarla in nome dell’avidità di guadagno. Bene è descritto questo processo in  Il Paradiso Occidente di Stefano Zecchi. Ciò conduce a eccessi nella qualità del vivere che nascono dall’ideologia dello sviluppo illimitato e portano al disagio e all’infelicità.
L’antropologo Marc Augé identifica tre eccessi nel mondo contemporaneo (o “surmodernité” come lo definisce): un eccesso di tempo, un eccesso di spazio e un eccesso di individualismo. Il primo è dovuto all’accelerazione della storia: i media rendono storia eventi che accadono a distanze temporali ravvicinate; il secondo al fatto che avvenimenti in luoghi lontani vengono vissuti come vicini, grazie alla televisione e internet; infine il terzo eccesso è causato dal fatto che sempre più l’individuo è chiamato a vivere la vita e la società in modo individualistico. Il sociologo Zygmunt Bauman definisce questa società senza più appartenenza ed estremamente superficiale “società liquida”: questa ha prodotto l’attuale crisi estetica ed economica dalla quale si potrebbe uscire, secondo lui, solo passando da un modello incentrato sull’individuo a uno che si basi invece su un’esperienza etica ed estetica, privilegiando i rapporti umani e il contesto. La domanda che scaturisce da queste riflessioni sulla cultura dell’Occidente è questa: è possibile parlare di bellezza in questa società? Come si diceva all’inizio essa è il frutto di cura e attenzione e amore il contrario di superficialità e trascuratezza.   Il paesaggio   è la riprova, se ce ne fosse bisogno, della sostanziale  criminosa indifferenza con cui viene deturpato. La risposta dunque che mi do è che non è possibile ma necessario partire dalla bellezza per una inversione di tendenza.  Tutto ci induce a credere infatti che le trasformazioni del paesaggio naturale abbiano conseguenze ben più profonde di quanto non siano quelle, sia pur gravi, della perdita dei riferimenti spaziali o della memoria dei propri antenati. In definitiva per la nostra parte più profonda la montagna viene ad assumere un significato di ascesa verso il divino e un’evoluzione  interiore, le acque per Mircea Eliade sono la vita primigenia, “fons e origo” di tutte le possibiltà esistenziali, il bosco è la vita con tutte le sue luci e ombre, l’albero è l’albero della vita, esprime tutto ciò che l’uomo religioso considera reale e sacro, il cielo esprime sempre il trascendente. I valori simbolici degli elementi naturali dimostrano l’universalità di questo antico linguaggio dell’inconscio e l’interrelazione tra interno ed esterno. Noi abbiamo tolto ogni valore a ciò con grande presunzione creando una mentalità consumista e tecnicista per cui la montagna è un’ accidentalità geologica da perforare, le acque sono degli scarichi naturali, i boschi sono stati tagliati o bruciati. E’ evidente che nella misura in cui abbiamo deturpato e deriso il nostro ambiente naturale abbiamo anche intorbidato il nostro mondo interiore e quindi il nostro equilibrio psicofisico.

giovedì 11 gennaio 2018

I falsi di Modigliani

                                             Un poeta al mare, olio su tela, cm 50x70

   Leggo trasecolando dei falsi Modgliani esposti a Genova. Non è bastata la burla di Livorno il povero Modi è sempre al centro di scandali e truffe. L’artista, scomparso a soli trentacinque anni, secondo alcuni avrebbe prodotto più da morto che da vivo, nel senso che girano nelle aste di tutto il mondo dei falsi che vengono spacciati per veri e venduti a cifre da capogiro con tanto di expertise. Nel caso citato sono una ventina i quadri in questione sequestrati dai carabinieri. Se consideriamo che un pezzo di questo autore è stato venduto da Sotheby's, per circa 200 milioni di dollari, terzo nella graduatoria dei massimi prezzi mai pagati al mondo per opere d’arte, e che uno di quelli esposti a Palazzo Ducale era valutato 35 milioni si può immaginare il giro di soldi che fa capo a questo pittore.  E’ inevitabile che venga preso di mira da falsari di varia natura, a cominciare dai critici disonesti che vengono pagati per dichiararne l’autenticità. Questo è il panorama del mercato dell’arte. Come dicevo a proposito della favolosa vendita del Salvator Mundi, i collezionisti ormai non collezionano più l’opera in se ma il valore che la rende inaccessibile ai più, come nel caso dei francobolli.  Ciò conduce a una grande confusione nel campo della produzione artistica e nel concetto stesso di arte infatti siamo giunti a tanto, come ho già avuto occasione di esporre nel mio libro L’altro architetto, per via di una cultura  nichilista che azzera il valore estetico in favore di quello finanziario, ciò anche in relazione alla concezione odierna dell’artista ereditata dalla degenerazione romantica di questo personaggio, considerato nietzchianamente al di là del bene e del male, sovranamente posseduto dal suo furor  creativo che spesso coincide con la disruttività se non ben educato. Modigliani appartiene  a quegli artisti mitizzati e resi leggendari da una agiografia che, come nel caso di Van Gogh, ha inteso considerarli martiri del loro amore per l’arte cui hanno sacrificato le loro giovani vite. E’arcinoto il suo soggiorno parigino, la sua tubercolosi, la sua passione per l’alcol nonchè la sua fine e il suicidio della sua compagna, questo ha fatto si che si creasse il mito di Modi e di conseguenza anche quello delle sue opere che, in tempi di pruderie, scandalizzarono i benpensanti. A parer mio vengono eccessivamente esaltate  da certa critica d’arte che lo considera grande per la sua originalità. Ma su questo abbiamo già avuto modo di scrivere in altro contesto, a proposito della concezione dell’artista oggi.    

lunedì 20 novembre 2017

Salvator Mundi



   Salvator Mundi, attribuito a Leonardo da Vinci, è stato battuto da Christie’s a New York per la cifra record di 450 milioni di dollari, il prezzo massimo mai pagato per un’opera d’arte all’incanto.  Questo evento ci induce a una riflessione.  La bellezza non ha prezzo e il fatto che questo dipinto di Leonardo, che gareggiava con gli artisti del suo tempo per raggiungere la Bellezza Universale, sia andato a questa cifra iperbolica non ci scandalizza, anzi ci riempie di orgoglio e soddisfazione.  Ma è l’arte che ne viene valorizzata ? Niente affatto, a parer mio, anzi  da quando in economia si è passati dal valore d’uso al valore di scambio noi paghiamo la rarità dell’oggetto e la sua conseguente richiesta da parte di collezionisti tanto ricchi quanto eccentrici che pagano per l’ambizione di possedere quello che altri non si possono permettere. Basti dare un’occhiata alla graduatoria dei prezzi d’asta più alti per opere di pittura che, se è vero che il primo è Leonardo, il secondo posto appartiene ad uno pressocchè sconosciuto al grande pubblico Willem De Kooning con un’opera di espressionismo astratto che lascia basiti e ci vuole una guida per penetrarne il significato. Stefano Zecchi giustamente afferma nel suo ultimo libro Paradiso Occidente che l’arte deve spiegare e non essere spiegata, vale a dire che un’opera che ha bisogno di un interprete e non emoziona non è arte, almeno nel significato originario del termine. Se deve essere spiegata è una degenerazione intellettualistica dell’arte che non ha più come scopo la bellezza . Il valore venale che le si attribuisce non è altro dunque che una convenzione finanziaria su un oggetto dichiarato artistico da un ristretto numero di persone interessate a lucrarci sopra e che hanno il potere per farlo. Niente a che vedere con l’opera di Leonardo da Vinci. Fra l’altro il suddetto artista, statunitense di origine olandese,  in là con gli anni si ammalò di Alzaimer e continuò a dipingere  e non è possibile distinguere le opere di prima e dopo che  salgono a questi valori, 300 milioni di dollari. Che cosa paga dunque il collezionista ? La produzione della malattia ? Notiamo una tendenza che esalta thanatos più che eros in questo mercato dell’arte. Già di per sè la corrente espressionista mette in mostra i disagi interiori dell’artista, le emozioni negative, e questo passi in ragione del fatto che i pittori di quel periodo si sentono espropriati della loro funzione sociale di raccontare la realtà profonda ma quando diventa astratta è insopportabilmente espressione di una confusione mentale che non può che condurre all’abisso della negazione assoluta. Questo esemplifica bene il percorso dell’arte contemporanea, che cosa si colleziona dunque ? Il nichilismo etico ed estetico non può che condurre fuori dal campo dell’arte che per tradizione tende   al trionfo della vita, se la bellezza non è che la vita quando mostra il suo lato benedetto. Il Salvator Mundi di Leonardo da Vinci invece corrisponde proprio a questa definizione, anzi lo si può considerare come l’emblema di questa funzione dell’arte. La faccia del Cristo è il divino che si è incarnato e dunque la Bellezza e quindi il risultato della sua ricerca attraverso la natura che si specchia nel volto degli uomini di valore, antichi e moderni. E’ l’Uomo universale, nuovo Adamo, modello di etica ed estetica. Quando Dostoevskij fece dire al principe Miskin che la bellezza salverà il mondo forse a questo si riferiva, non a caso « salvator mundi ». Prendiamo dunque questo fatto di cronaca come un buon segnale per il recupero di una’antica gerarchia di valori che risponda al bisogno di bellezza.  

domenica 8 ottobre 2017

Dove va l'Umanitaria?


In occasione della scomparsa del presidente della Società Umanitaria Piero Amos Nannini mi viene da riflettere sulla funzione che questo Ente ha avuto nel passato e quello che il suo fondatore, Mosè Loria ,voleva che fosse. In una visione illuminista di quegli anni, fine ottocento, una certa cultura di origine massonica, credeva nella funzione educativa per dare, a chi non avesse ricevuto in eredità potere e denaro, l’opportunità, attraverso la propria intelligenza, di rilevarsi da soli.  Questo in polemica con la carità pietistica di marca cattolica che tendeva a lasciare i rapporti di potere immutati. Dunque l’educazione per i diseredati era un potente ascensore sociale che favoriva la risalita di chi, pur avendo ricevuto dalla natura buone doti intellettuali, si vedeva costretto a rinunciare ad utilizzarle per sè e per gli altri in ragione del fatto che non era in grado di esprimerle ad esempio attraverso un linguaggio appropriato o mediante la scrittura, ricordo per inciso che allora l’analfabetismo era la principale piaga dei poveri. L’Umanitaria dunque, sospinta anche dai sindaci socialisti di Milano nel primo novecento, si diede molto da fare nel settore dell’assistenza e dell’istruzione per le classi deboli, sono degni di nota fra l’altro i due quartieri modello costruiti a Milano nel 1906 e 1909, fino ad essere esempio in Europa.  Le numerose iniziative sono ben documentate nella biblioteca dell’Ente. Durante il fascismo fu ovviamente contrastata  questa sua azione e invece nel dopoguerra riprese splendore con la guida di Riccardo Bauer, antifascista al confino con Pertini, che ne prese le redini fino al 68 facendo costruire negli anni cinquanta addirittura un nuovo edificio in tardo razionalismo che voleva, come scuola di arti e mestieri,  emulare  il Bauhaus di Gropius. Il  68 fu l’annus horribilis per l’Umanitaria fondata ovviamente su un sistema di valutazione strettamente meritocratico. Bauer diede le dimissioni sulla spinta di una contestazione tanto ideologica quanto sterile e iniziò il declino. Le ultime due presidenze hanno tentato qualche rilancio, ad esempio con una università della terza età, ma non hanno a parer mio saputo interpretarne del tutto lo spirito che era quello di diventare eccellenza culturale  indipendente, per attirare le forze intellettuali più illuminate e costituire punto di riferimento per una classe politica che dice di volere l’uguaglianza ma nei fatti la nega, ammalata di protagonismo narcisistico ovvero nevrosi da potere come affermo nel mio libro L’altro architetto, non a caso ambientato in Umanitaria. Anche oggi infatti la forbice tra ricchi e poveri è più che mai larga, benchè l’istruzione sia aumentata sono apparse nuove povertà e nuove disuguaglianze che un Ente come questo dovrebbe tentare di ridurre. Le nuove disuguaglianze non sono più in relazione all’assenza di istruzione ma se mai alla crisi del sistema dell’istruzione, dalla scuola pubblica all’università di massa, che genera disoccupazione intellettuale tra i giovani privi di risorse economiche,  e alla conseguente diffusione del familismo amorale a tutti i livelli e in ogni ambito. Per arrivare a questo sarebbe necessario, in alcuni settori particolarmente in crisi, offrire valide alternative, già accade con la musica o, con Nestore, negli abbandoni scolastici ma si dovrebbe puntare più in alto come era un tempo la scuola del libro di Steiner che faceva da punto di riferimento in Italia per la grafica. Perchè non potrebbe essere l’architettura  e l’ambiente che stanno particolarmente male e costituiscono la sintesi di una società in crisi d’identità ?

sabato 5 agosto 2017

La Pietà di Michelangelo


Ho condiviso il video di L’arte di guardare l’arte sulla Pietà di Michelangelo, quella che sta in S. Pietro a Roma. Questo video ha avuto più di 150.000 visualizzazioni ed è stato condiviso più di 100 volte. Credo che sia un segnale da non sottovalutare. Hilmann affermava che il  Novecento ha effettuata una rimozione : il bisogno di bellezza. Sono d’accordo ma questo concetto richiede sempre una ridefinizione ogni volta che se ne parla, purtuttavia una scultura come questa, capace di emozionare e di condurre al trascendente non ha bisogno di tante parole, parla da sola, è una meditazione marmorea. Florenski, che non amava molto il rinascimento, affermava che vi sono due modi di rapportarsi al mondo: quello contemplativo creativo e quello rapace meccanico.  In tutto il Novecento, soprattutto la seconda metà, ha prevalso il secondo. Questo successo della Pietà è la compensazione, esso ha due sorgenti intreriori alla nostra umanità. La prima viene dalla natura di cui facciamo parte, siamo orientati alla ricerca della bellezza come  nocciolo di verità che sta in noi di natura estetica e sacra. La seconda dalla religiosità che anch’essa, essendo nella sua essenza una  tendenza naturale all’armonia e all’unità, il latino religo da cui deriva significa  lego insieme, ci porta a guardare la natura nel suo lato benedetto, cioè creativo e unificante. Questo connubio dunque di arte, natura e religiosità conduce al capolavoro ammirato da tutti.  E’ vero che il Rinascimento, con il suo Umanesimo, tende a dare più che altro una visione antropocentrica e scenografica del mondo ma pur sempre denota attenzione e rispetto ad una Natura Naturans concepita come creazione che continua a creare. Michelangelo per la cultura dell’epoca è il punto di arrivo di una ricerca che parte dalla Grecia per trovare nella natura il bello ideale. Quest’ultimo si realizza con la venuta del Salvatore che condensa i tre attributi  divini: bonum, verum et pulcrum. Non a caso il nostro artista, faceva parte, soprattutto in gioventù, tempo al quale si fa risalire la realizzazione di questa Pietà, del circolo neoplatonico fiorentino fondato da Cosimo De Medici con i principali filosofi e artisti dell’epoca come Poliziano, Pico della Mirandola, Botticelli, Lorenzo De Medici e altri. La teoria neoplatonica,  che andava bene alla classe dirigente dell’epoca,  da una parte esaltava la natura nelle doti naturali del potente signore dall’altra ne  provocava un certo svilimento  in quanto decretava  che essa, benchè unico mezzo per il raggiungimento del mondo delle idee, era intrisa di imperfezioni (accidenti) che l’artista aveva il compito di cancellare. Questo idealismo faceva anche della scienza, al suo sorgere, uno strumento per comprendere la bellezza del creato  rendendola funzionale a questa ricerca. Comunque fu il Cattolicesimo innestato di pensiero greco  a ispirare questo capolavoro e la convinzione di poter raggiungere la bellezza universale. Si potrebbe dire che la presenza  in Italia di una tradizione pagana che vedeva nella dea Venere il culmine della bellezza femminile permise ai nostri artisti di trasferirla sulla madre di Cristo, Basti pensare a quanta devozione riscuoteva la Madonna  anche dai massimi poeti Dante e Petrarca. Dunque questo naturalismo rinascimentale in qualche misura fu sostenuto anche dalla presenza di questo elemento femminile impresso nella teologia.  Tutto cambio’ con la Riforma che lo annullo’ per concepire un’idea di Dio solo al maschile che non aveva certo bisogno  di arte ed emozioni per svelarsi ma semmai di successi commerciali e militari.  Questa scelta di genere anche a livello spirituale porto’ al res cogitans e res extensa di cartesiana memoria che completo’ la svalutazione della natura e diede l’avvio al suo sfruttamento. Si potrebbe dire quindi che il culto della Madonna  ha protetto il rispetto per la vita e il naturalismo artistico permettendo la realizzazione di capolavori che ancora ci emozionano.  Questo per dire cosa, direte voi.  Per dire che oggi necessita una nuova estetica che valorizzi più che mai la natura facendo tesoro anche della nostra tradizione religiosa che è stata in grado di influenzare l’arte di artisti eccelsi come Michelangelo. Un commentatore su Facebook mi ha messo come commento alla Pietà: Meglio un albero. Rispondo che ho il massimo rispetto per gli alberi e sono d’accordo sul fatto che l’albero sia un essere vivente ma  la bellezza è figlia della creatività e quanto a questo natura e arte sono sullo stesso piano, la prima perchè produce vita e la seconda perchè ne fa intravedere il trascendente se sa interpretarla senza allontanarsene presuntuosamente.