Che orribile tragedia il crollo del ponte Morandi
sul Polcevera a Genova ! Si rimane esterefatti di fronte alle immagini
diffuse dai media ed emergono dal nostro animo emozioni confuse di pietà,
rabbia e paura che ci costringono a riflettere sull’accaduto e sulle sue cause.
Secondo dati recenti più del 60% dei ponti costruiti in Italia dagli anni
cinquanta ai settanta sono a rischio cedimento. Cinque sono crollati negli
ultimi due anni. In questo caso il destino beffardo ha fatto cadere proprio un
simbolo della tecnica e della modernità di quando l’idea di progresso era
diventata un’incontrastata guida in ogni ambito del fare e l’ingegneria italiana
veniva ammirata in tutto il mondo. Oggi parliamo di mancata manutenzione, di
disastro annunciato da molti segnali e questo ci fa ancora più arrabbiare, ci
si sente fragili nelle mani di una economia che ha come primo obiettivo lucrare
guadagni sempre più alti a scapito della sicurezza e del bene comune. Galli
della Loggia sul Corriere si chiedeva dove fosse lo Stato e denunciava in
questa scarsa idea di Stato la causa dei mali italiani. Altri commentatori
hanno dichiarato che gli italiani sono contrari all’industria e al progresso e
quindi hanno favorito i contestatori della Gronda che avrebbe alleggerito il
traffico sul ponte maledetto. Personalmente ritengo che questo crollo, come del
resto gli altri, sia invece un segnale della debolezza del concetto di
progresso che aleggiava intorno alla metà del secolo scorso. Ho già scritto
diversi articoli su questo Blog, e nel mio libro L’altro architetto, di denuncia rispetto a questa idea di progresso e di economia.
Questo ponte crollato ne è l’emblema. Ciò infatti ha a che fare con il concetto di bellezza mescolata
alla volontà di potenza, da questo punto di vista era l’ogoglio di Genova che
si paragonava a New York. Questa bellezza però frutto della presuntuosa sfida
alle leggi della statica in nome del progresso mi rammentano l’apologo di
Dedalo e Icaro. La presunzione e la provocazione sono sentimenti negativi che
fanno disastri quando sono applicati all’architettura dei ponti soprattutto se
non accompagnati da una manutenzione necessaria. Ma tralasciando l’intento che
qualcuno definirebbe moralistico e invece cercando di interpretare la malattia
e non solo il sintomo mi riallaccio ad un mio articolo del 2016, a commento dei 50 anni dalla pubblicaione del libro di
Calvino Speculazione edilizia. La cementificazione della Liguria, che lo
scrittore denunciava già negli anni 60, è continuata in crescendo e l’hanno
chiamata boom economico, questa è la vera causa del crollo del ponte sul
Polcevera che simbolicamente ha spezzato in due le Riviere sfigurate da una
politica urbanistica improntata alla « deregulation » cui è stato dato
il nome di rapallizzazione a ricordare ciò
che è avvenuto nella ridente cittadina ligure. Cause generali dunque sono state l’aumento del
traffico e a monte la scelta di privilegiare il trasporto su gomma anzicchè su
rotaia, queste ed altre quisquilie sempre orientate da una economia che fa il bello e il cattivo tempo in Italia dove
la politica è fragile come il ponte e la bellezza è considerata un lusso.
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domenica 26 agosto 2018
venerdì 29 giugno 2018
Della riapertura dei navigli milanesi
C’è molta polemica sulla riapertura dei navigli. Ciascuno porta buone
ragioni per il si o per il no ed è difficile districarsi fra queste opinioni.
Alcuni affermano che l’opera sarà costosissima e di questi tempi sarebbe meglio
impiegare quei soldi per rigenerare le periferie, altri vedono l’operazione più
che altro come una trovata turistica che porta valore solo al centro città,
infine altri ancora affermano che avendo fatto un referendum nel 2011,ed avendo
avuto circa 500.000 si, bisogna ascoltare i cittadini e mettere mano alla
riapertura. Altri, ancora per il si. dicono che l’avvio dei lavori potrebbe
costituire una occasione per una presa di coscienza della situazione idraulica
milanese per migliorarla. Che dire a fronte di tutte queste belle
considerazioni ? Personalmente credo che ve ne sia un’altra a favore del
si, che nessuno ha citato per paura di apparire patetico, ed è quella della
bellezza. Questo concetto è cambiato
dagli anni venti della chiusura, impregnati di futurismo. I popoli
civili hanno sempre aspirato a costruire città belle, anzi erano chiamati
civili proprio per questo e la città era bella perchè offriva esempi di cura,
attenzione ed amore che creavano luoghi ameni, adatti a starci bene, e questi
risultavano da una mescolanza di natura e cultura frutto della creatività umana. Fra gli
elementi naturali l’acqua ha sempre avuto uno spiccato valore simbolico, è fons
e origo per citare il filosofo Bachelard, soprattutto dove andava a compensare
il prevalere della pietra e del cemento. Il funzionalismo del secolo scorso ha
negato questo bisogno privilegiando le esigenze del traffico automobilistico e
della speculazione edilizia. Quando frequentavo la facoltà di architettura
negli anni sessanta un professorone di progettazione, che in seguito diventò un
archistar internazionale, avendo dato come tema una scuola elementare,
suggeriva di posizionarla su una piastra di calcestruzzo a cavallo di uno snodo
stradale a traffico veloce. Ora questo sembra ridicolo rispetto ai nuovi gusti
generati dal pensiero ecologico ma allora sembrava il non plus ultra della
modernità e dell’educazione. Dicevo dunque che rispetto agli anni in cui furono
coperti i navigli alla « città che sale » si è sostituita la città
lenta. Ecco dunque un buon argomento a favore della riapertura poichè credo che
sia il segnale di una nuova estetica, soprattutto in una città come Milano che
negli anni scorsi ha pesantemente favorito nuovi massicci interventi
squilibranti come Porta Nuova ed Ex Fiera dove ha trionfato la tecnica
globalizzante, distopica e banalizzante. E’ ormai a noi chiaro che la crisi
ecologica del mondo moderno sia figlia di una crisi estetica dove il bello è
stato sostituito dall’utile e la natura sfruttata a dismisura. Per questo motivo bisogna evitare che la
riapertura consista nel progettare dei laghetti da cartolina a scopo turistico
che contrastano con la tradizione. Cercare l’identità perduta è una operazione
delicata che richiede molto studio.
martedì 22 maggio 2018
Bellezza cultura e paesaggio
Potremmo partire da un’affermazione di sapore
plotiniano su ciò che è brutto e cioè: quello che non viene da noi considerato,
guardato, ovvero viene trascurato. Certo, il neoplatonismo non è più di moda,
anche se sul concetto di bellezza ha molto indagato e ha fornito diversi spunti
agli umanisti del Rinascimento, e non solo, ma ho parlato di bruttezza. Il problema estetico
oggi appare molto complesso. Intanto occorre dire
che la cultura, da un punto di vista antropologico, si può definire come una
risposta ai bisogni e ai problemi di un determinato popolo, in un dato periodo
storico, nel rapporto con il proprio territorio e la natura, ai fini di un
miglioramento della qualità della vita: infatti deriva dal latino còlere che significa “coltivare ovvero
avere cura del luogo”. Nelle società agricole la cultura era legata alla terra
e alle capacità dell’uomo di trarne vantaggi, poi ha acquistato un significato
più ampio relativo alla capacità di produrre benessere e felicità. Essendo la
bellezza promessa e frutto di felicità quindi
si può anche dire che la cultura avrebbe come compito quello di produrre
bellezza. È l’insieme di usi e costumi del vivere in comune che poi si
manifestano concretamente nella città. I popoli civili si differenziavano dai
barbari proprio perché avevano realizzato magnifiche città. Infatti il termine
civile deriva da cives = cittadino.
Con la civiltà industriale le città si sganciano dalla dipendenza nei confronti
del territorio circostante e quindi dal rapporto profondo, sacro, con esso. Per
cui anche la cultura si stacca dal territorio e si identifica con la nazione o
la lingua, o peggio la razza. Oggi nella civiltà tecnologica le culture si sono
mescolate fino a formare un’unica grande cultura nell’Occidente sviluppato e
industrializzato, ma ora anche in Cina e India, che domina il resto del mondo.
Questa però, influenzata dagli interessi economici, ha perso ogni contatto con
il suo significato profondo originario e qualcuno la definisce più
un’incultura, nel senso che non è più orientata alla ricerca della felicità
dell’uomo nel suo rapporto con la natura, bensì a dominare quest’ultima e
dilapidarla in nome dell’avidità di guadagno. Bene è descritto questo processo
in Il Paradiso Occidente di Stefano
Zecchi. Ciò conduce a eccessi nella qualità del vivere che nascono
dall’ideologia dello sviluppo illimitato e portano al disagio e all’infelicità.
L’antropologo Marc Augé identifica tre eccessi nel mondo contemporaneo (o “surmodernité” come lo definisce): un eccesso di tempo, un eccesso di spazio e un eccesso di individualismo. Il primo è dovuto all’accelerazione della storia: i media rendono storia eventi che accadono a distanze temporali ravvicinate; il secondo al fatto che avvenimenti in luoghi lontani vengono vissuti come vicini, grazie alla televisione e internet; infine il terzo eccesso è causato dal fatto che sempre più l’individuo è chiamato a vivere la vita e la società in modo individualistico. Il sociologo Zygmunt Bauman definisce questa società senza più appartenenza ed estremamente superficiale “società liquida”: questa ha prodotto l’attuale crisi estetica ed economica dalla quale si potrebbe uscire, secondo lui, solo passando da un modello incentrato sull’individuo a uno che si basi invece su un’esperienza etica ed estetica, privilegiando i rapporti umani e il contesto. La domanda che scaturisce da queste riflessioni sulla cultura dell’Occidente è questa: è possibile parlare di bellezza in questa società? Come si diceva all’inizio essa è il frutto di cura e attenzione e amore il contrario di superficialità e trascuratezza. Il paesaggio è la riprova, se ce ne fosse bisogno, della sostanziale criminosa indifferenza con cui viene deturpato. La risposta dunque che mi do è che non è possibile ma necessario partire dalla bellezza per una inversione di tendenza. Tutto ci induce a credere infatti che le trasformazioni del paesaggio naturale abbiano conseguenze ben più profonde di quanto non siano quelle, sia pur gravi, della perdita dei riferimenti spaziali o della memoria dei propri antenati. In definitiva per la nostra parte più profonda la montagna viene ad assumere un significato di ascesa verso il divino e un’evoluzione interiore, le acque per Mircea Eliade sono la vita primigenia, “fons e origo” di tutte le possibiltà esistenziali, il bosco è la vita con tutte le sue luci e ombre, l’albero è l’albero della vita, esprime tutto ciò che l’uomo religioso considera reale e sacro, il cielo esprime sempre il trascendente. I valori simbolici degli elementi naturali dimostrano l’universalità di questo antico linguaggio dell’inconscio e l’interrelazione tra interno ed esterno. Noi abbiamo tolto ogni valore a ciò con grande presunzione creando una mentalità consumista e tecnicista per cui la montagna è un’ accidentalità geologica da perforare, le acque sono degli scarichi naturali, i boschi sono stati tagliati o bruciati. E’ evidente che nella misura in cui abbiamo deturpato e deriso il nostro ambiente naturale abbiamo anche intorbidato il nostro mondo interiore e quindi il nostro equilibrio psicofisico.
L’antropologo Marc Augé identifica tre eccessi nel mondo contemporaneo (o “surmodernité” come lo definisce): un eccesso di tempo, un eccesso di spazio e un eccesso di individualismo. Il primo è dovuto all’accelerazione della storia: i media rendono storia eventi che accadono a distanze temporali ravvicinate; il secondo al fatto che avvenimenti in luoghi lontani vengono vissuti come vicini, grazie alla televisione e internet; infine il terzo eccesso è causato dal fatto che sempre più l’individuo è chiamato a vivere la vita e la società in modo individualistico. Il sociologo Zygmunt Bauman definisce questa società senza più appartenenza ed estremamente superficiale “società liquida”: questa ha prodotto l’attuale crisi estetica ed economica dalla quale si potrebbe uscire, secondo lui, solo passando da un modello incentrato sull’individuo a uno che si basi invece su un’esperienza etica ed estetica, privilegiando i rapporti umani e il contesto. La domanda che scaturisce da queste riflessioni sulla cultura dell’Occidente è questa: è possibile parlare di bellezza in questa società? Come si diceva all’inizio essa è il frutto di cura e attenzione e amore il contrario di superficialità e trascuratezza. Il paesaggio è la riprova, se ce ne fosse bisogno, della sostanziale criminosa indifferenza con cui viene deturpato. La risposta dunque che mi do è che non è possibile ma necessario partire dalla bellezza per una inversione di tendenza. Tutto ci induce a credere infatti che le trasformazioni del paesaggio naturale abbiano conseguenze ben più profonde di quanto non siano quelle, sia pur gravi, della perdita dei riferimenti spaziali o della memoria dei propri antenati. In definitiva per la nostra parte più profonda la montagna viene ad assumere un significato di ascesa verso il divino e un’evoluzione interiore, le acque per Mircea Eliade sono la vita primigenia, “fons e origo” di tutte le possibiltà esistenziali, il bosco è la vita con tutte le sue luci e ombre, l’albero è l’albero della vita, esprime tutto ciò che l’uomo religioso considera reale e sacro, il cielo esprime sempre il trascendente. I valori simbolici degli elementi naturali dimostrano l’universalità di questo antico linguaggio dell’inconscio e l’interrelazione tra interno ed esterno. Noi abbiamo tolto ogni valore a ciò con grande presunzione creando una mentalità consumista e tecnicista per cui la montagna è un’ accidentalità geologica da perforare, le acque sono degli scarichi naturali, i boschi sono stati tagliati o bruciati. E’ evidente che nella misura in cui abbiamo deturpato e deriso il nostro ambiente naturale abbiamo anche intorbidato il nostro mondo interiore e quindi il nostro equilibrio psicofisico.
giovedì 11 gennaio 2018
I falsi di Modigliani
Un poeta al mare, olio su tela, cm 50x70
Leggo trasecolando dei falsi Modgliani esposti a Genova. Non è bastata la burla di Livorno il povero Modi è sempre al centro di scandali e truffe. L’artista, scomparso a soli trentacinque anni, secondo alcuni avrebbe prodotto più da morto che da vivo, nel senso che girano nelle aste di tutto il mondo dei falsi che vengono spacciati per veri e venduti a cifre da capogiro con tanto di expertise. Nel caso citato sono una ventina i quadri in questione sequestrati dai carabinieri. Se consideriamo che un pezzo di questo autore è stato venduto da Sotheby's, per circa 200 milioni di dollari, terzo nella graduatoria dei massimi prezzi mai pagati al mondo per opere d’arte, e che uno di quelli esposti a Palazzo Ducale era valutato 35 milioni si può immaginare il giro di soldi che fa capo a questo pittore. E’ inevitabile che venga preso di mira da falsari di varia natura, a cominciare dai critici disonesti che vengono pagati per dichiararne l’autenticità. Questo è il panorama del mercato dell’arte. Come dicevo a proposito della favolosa vendita del Salvator Mundi, i collezionisti ormai non collezionano più l’opera in se ma il valore che la rende inaccessibile ai più, come nel caso dei francobolli. Ciò conduce a una grande confusione nel campo della produzione artistica e nel concetto stesso di arte infatti siamo giunti a tanto, come ho già avuto occasione di esporre nel mio libro L’altro architetto, per via di una cultura nichilista che azzera il valore estetico in favore di quello finanziario, ciò anche in relazione alla concezione odierna dell’artista ereditata dalla degenerazione romantica di questo personaggio, considerato nietzchianamente al di là del bene e del male, sovranamente posseduto dal suo furor creativo che spesso coincide con la disruttività se non ben educato. Modigliani appartiene a quegli artisti mitizzati e resi leggendari da una agiografia che, come nel caso di Van Gogh, ha inteso considerarli martiri del loro amore per l’arte cui hanno sacrificato le loro giovani vite. E’arcinoto il suo soggiorno parigino, la sua tubercolosi, la sua passione per l’alcol nonchè la sua fine e il suicidio della sua compagna, questo ha fatto si che si creasse il mito di Modi e di conseguenza anche quello delle sue opere che, in tempi di pruderie, scandalizzarono i benpensanti. A parer mio vengono eccessivamente esaltate da certa critica d’arte che lo considera grande per la sua originalità. Ma su questo abbiamo già avuto modo di scrivere in altro contesto, a proposito della concezione dell’artista oggi.
Leggo trasecolando dei falsi Modgliani esposti a Genova. Non è bastata la burla di Livorno il povero Modi è sempre al centro di scandali e truffe. L’artista, scomparso a soli trentacinque anni, secondo alcuni avrebbe prodotto più da morto che da vivo, nel senso che girano nelle aste di tutto il mondo dei falsi che vengono spacciati per veri e venduti a cifre da capogiro con tanto di expertise. Nel caso citato sono una ventina i quadri in questione sequestrati dai carabinieri. Se consideriamo che un pezzo di questo autore è stato venduto da Sotheby's, per circa 200 milioni di dollari, terzo nella graduatoria dei massimi prezzi mai pagati al mondo per opere d’arte, e che uno di quelli esposti a Palazzo Ducale era valutato 35 milioni si può immaginare il giro di soldi che fa capo a questo pittore. E’ inevitabile che venga preso di mira da falsari di varia natura, a cominciare dai critici disonesti che vengono pagati per dichiararne l’autenticità. Questo è il panorama del mercato dell’arte. Come dicevo a proposito della favolosa vendita del Salvator Mundi, i collezionisti ormai non collezionano più l’opera in se ma il valore che la rende inaccessibile ai più, come nel caso dei francobolli. Ciò conduce a una grande confusione nel campo della produzione artistica e nel concetto stesso di arte infatti siamo giunti a tanto, come ho già avuto occasione di esporre nel mio libro L’altro architetto, per via di una cultura nichilista che azzera il valore estetico in favore di quello finanziario, ciò anche in relazione alla concezione odierna dell’artista ereditata dalla degenerazione romantica di questo personaggio, considerato nietzchianamente al di là del bene e del male, sovranamente posseduto dal suo furor creativo che spesso coincide con la disruttività se non ben educato. Modigliani appartiene a quegli artisti mitizzati e resi leggendari da una agiografia che, come nel caso di Van Gogh, ha inteso considerarli martiri del loro amore per l’arte cui hanno sacrificato le loro giovani vite. E’arcinoto il suo soggiorno parigino, la sua tubercolosi, la sua passione per l’alcol nonchè la sua fine e il suicidio della sua compagna, questo ha fatto si che si creasse il mito di Modi e di conseguenza anche quello delle sue opere che, in tempi di pruderie, scandalizzarono i benpensanti. A parer mio vengono eccessivamente esaltate da certa critica d’arte che lo considera grande per la sua originalità. Ma su questo abbiamo già avuto modo di scrivere in altro contesto, a proposito della concezione dell’artista oggi.
lunedì 20 novembre 2017
Salvator Mundi
Salvator Mundi, attribuito a Leonardo da Vinci, è stato battuto da Christie’s a New York per la cifra record di 450 milioni di dollari, il prezzo massimo mai pagato per un’opera d’arte all’incanto. Questo evento ci induce a una riflessione. La bellezza non ha prezzo e il fatto che questo dipinto di Leonardo, che gareggiava con gli artisti del suo tempo per raggiungere la Bellezza Universale, sia andato a questa cifra iperbolica non ci scandalizza, anzi ci riempie di orgoglio e soddisfazione. Ma è l’arte che ne viene valorizzata ? Niente affatto, a parer mio, anzi da quando in economia si è passati dal valore d’uso al valore di scambio noi paghiamo la rarità dell’oggetto e la sua conseguente richiesta da parte di collezionisti tanto ricchi quanto eccentrici che pagano per l’ambizione di possedere quello che altri non si possono permettere. Basti dare un’occhiata alla graduatoria dei prezzi d’asta più alti per opere di pittura che, se è vero che il primo è Leonardo, il secondo posto appartiene ad uno pressocchè sconosciuto al grande pubblico Willem De Kooning con un’opera di espressionismo astratto che lascia basiti e ci vuole una guida per penetrarne il significato. Stefano Zecchi giustamente afferma nel suo ultimo libro Paradiso Occidente che l’arte deve spiegare e non essere spiegata, vale a dire che un’opera che ha bisogno di un interprete e non emoziona non è arte, almeno nel significato originario del termine. Se deve essere spiegata è una degenerazione intellettualistica dell’arte che non ha più come scopo la bellezza . Il valore venale che le si attribuisce non è altro dunque che una convenzione finanziaria su un oggetto dichiarato artistico da un ristretto numero di persone interessate a lucrarci sopra e che hanno il potere per farlo. Niente a che vedere con l’opera di Leonardo da Vinci. Fra l’altro il suddetto artista, statunitense di origine olandese, in là con gli anni si ammalò di Alzaimer e continuò a dipingere e non è possibile distinguere le opere di prima e dopo che salgono a questi valori, 300 milioni di dollari. Che cosa paga dunque il collezionista ? La produzione della malattia ? Notiamo una tendenza che esalta thanatos più che eros in questo mercato dell’arte. Già di per sè la corrente espressionista mette in mostra i disagi interiori dell’artista, le emozioni negative, e questo passi in ragione del fatto che i pittori di quel periodo si sentono espropriati della loro funzione sociale di raccontare la realtà profonda ma quando diventa astratta è insopportabilmente espressione di una confusione mentale che non può che condurre all’abisso della negazione assoluta. Questo esemplifica bene il percorso dell’arte contemporanea, che cosa si colleziona dunque ? Il nichilismo etico ed estetico non può che condurre fuori dal campo dell’arte che per tradizione tende al trionfo della vita, se la bellezza non è che la vita quando mostra il suo lato benedetto. Il Salvator Mundi di Leonardo da Vinci invece corrisponde proprio a questa definizione, anzi lo si può considerare come l’emblema di questa funzione dell’arte. La faccia del Cristo è il divino che si è incarnato e dunque la Bellezza e quindi il risultato della sua ricerca attraverso la natura che si specchia nel volto degli uomini di valore, antichi e moderni. E’ l’Uomo universale, nuovo Adamo, modello di etica ed estetica. Quando Dostoevskij fece dire al principe Miskin che la bellezza salverà il mondo forse a questo si riferiva, non a caso « salvator mundi ». Prendiamo dunque questo fatto di cronaca come un buon segnale per il recupero di una’antica gerarchia di valori che risponda al bisogno di bellezza.
domenica 8 ottobre 2017
Dove va l'Umanitaria?
In occasione della scomparsa del presidente della Società Umanitaria Piero Amos
Nannini mi viene da riflettere sulla funzione che questo Ente ha avuto nel
passato e quello che il suo fondatore, Mosè Loria ,voleva che fosse. In una
visione illuminista di quegli anni, fine ottocento, una certa cultura di
origine massonica, credeva nella funzione educativa per dare, a chi non avesse
ricevuto in eredità potere e denaro, l’opportunità, attraverso la propria
intelligenza, di rilevarsi da soli.
Questo in polemica con la carità pietistica di marca cattolica che
tendeva a lasciare i rapporti di potere immutati. Dunque l’educazione per i
diseredati era un potente ascensore sociale che favoriva la risalita di chi,
pur avendo ricevuto dalla natura buone doti intellettuali, si vedeva costretto
a rinunciare ad utilizzarle per sè e per gli altri in ragione del fatto che non
era in grado di esprimerle ad esempio attraverso un linguaggio appropriato o
mediante la scrittura, ricordo per inciso che allora l’analfabetismo era la
principale piaga dei poveri. L’Umanitaria dunque, sospinta anche dai sindaci
socialisti di Milano nel primo novecento, si diede molto da fare nel settore
dell’assistenza e dell’istruzione per le classi deboli, sono degni di nota fra
l’altro i due quartieri modello costruiti a Milano nel 1906 e 1909, fino ad
essere esempio in Europa. Le numerose iniziative
sono ben documentate nella biblioteca dell’Ente. Durante il fascismo fu
ovviamente contrastata questa sua azione
e invece nel dopoguerra riprese splendore con la guida di Riccardo Bauer,
antifascista al confino con Pertini, che ne prese le redini fino al 68 facendo
costruire negli anni cinquanta addirittura un nuovo edificio in tardo
razionalismo che voleva, come scuola di arti e mestieri, emulare il Bauhaus di Gropius. Il 68 fu l’annus horribilis per l’Umanitaria
fondata ovviamente su un sistema di valutazione strettamente meritocratico.
Bauer diede le dimissioni sulla spinta di una contestazione tanto ideologica
quanto sterile e iniziò il declino. Le ultime due presidenze hanno tentato
qualche rilancio, ad esempio con una università della terza età, ma non hanno a
parer mio saputo interpretarne del tutto lo spirito che era quello di diventare
eccellenza culturale indipendente, per
attirare le forze intellettuali più illuminate e costituire punto di
riferimento per una classe politica che dice di volere l’uguaglianza ma nei
fatti la nega, ammalata di protagonismo narcisistico ovvero nevrosi da potere
come affermo nel mio libro L’altro architetto, non a caso ambientato in
Umanitaria. Anche oggi infatti la forbice tra ricchi e poveri è più che mai
larga, benchè l’istruzione sia aumentata sono apparse nuove povertà e nuove
disuguaglianze che un Ente come questo dovrebbe tentare di ridurre. Le nuove
disuguaglianze non sono più in relazione all’assenza di istruzione ma se mai
alla crisi del sistema dell’istruzione, dalla scuola pubblica all’università di
massa, che genera disoccupazione intellettuale tra i giovani privi di risorse
economiche, e alla conseguente
diffusione del familismo amorale a tutti i livelli e in ogni ambito. Per
arrivare a questo sarebbe necessario, in alcuni settori particolarmente in
crisi, offrire valide alternative, già accade con la musica o, con Nestore, negli
abbandoni scolastici ma si dovrebbe puntare più in alto come era un tempo la
scuola del libro di Steiner che faceva da punto di riferimento in Italia per la
grafica. Perchè non potrebbe essere l’architettura e l’ambiente che stanno particolarmente male
e costituiscono la sintesi di una società in crisi d’identità ?
sabato 5 agosto 2017
La Pietà di Michelangelo
Ho condiviso il video
di L’arte di guardare l’arte sulla Pietà di Michelangelo, quella che sta in S.
Pietro a Roma. Questo video ha avuto più di 150.000 visualizzazioni ed è stato
condiviso più di 100 volte. Credo che sia un segnale da non sottovalutare.
Hilmann affermava che il Novecento ha
effettuata una rimozione : il bisogno di bellezza. Sono d’accordo ma questo
concetto richiede sempre una ridefinizione ogni volta che se ne parla,
purtuttavia una scultura come questa, capace di emozionare e di condurre al
trascendente non ha bisogno di tante parole, parla da sola, è una meditazione
marmorea. Florenski, che non amava molto il rinascimento, affermava che vi sono
due modi di rapportarsi al mondo: quello contemplativo creativo e quello rapace
meccanico. In tutto il Novecento,
soprattutto la seconda metà, ha prevalso il secondo. Questo successo della
Pietà è la compensazione, esso ha due sorgenti intreriori alla nostra umanità.
La prima viene dalla natura di cui facciamo parte, siamo orientati alla ricerca
della bellezza come nocciolo di verità
che sta in noi di natura estetica e sacra. La seconda dalla religiosità che
anch’essa, essendo nella sua essenza una tendenza naturale all’armonia e all’unità, il latino religo da cui deriva significa lego insieme, ci porta a guardare la natura nel suo lato
benedetto, cioè creativo e unificante. Questo connubio dunque di arte, natura e
religiosità conduce al capolavoro ammirato da tutti. E’ vero che il Rinascimento, con il suo
Umanesimo, tende a dare più che altro una visione antropocentrica e
scenografica del mondo ma pur sempre denota attenzione e rispetto ad una Natura
Naturans concepita come creazione che continua a creare. Michelangelo per la
cultura dell’epoca è il punto di arrivo di una ricerca che parte dalla Grecia
per trovare nella natura il bello ideale. Quest’ultimo si realizza con la
venuta del Salvatore che condensa i tre attributi divini: bonum, verum et pulcrum. Non a caso
il nostro artista, faceva parte, soprattutto in gioventù, tempo al quale si fa
risalire la realizzazione di questa Pietà, del circolo neoplatonico fiorentino
fondato da Cosimo De Medici con i principali filosofi e artisti dell’epoca come
Poliziano, Pico della Mirandola, Botticelli, Lorenzo De Medici e altri. La
teoria neoplatonica, che andava bene
alla classe dirigente dell’epoca, da una
parte esaltava la natura nelle doti naturali del potente signore dall’altra
ne provocava un certo svilimento in quanto decretava che essa, benchè unico mezzo per il
raggiungimento del mondo delle idee, era intrisa di imperfezioni (accidenti)
che l’artista aveva il compito di cancellare. Questo idealismo faceva anche
della scienza, al suo sorgere, uno strumento per comprendere la bellezza del
creato rendendola funzionale a questa
ricerca. Comunque fu il Cattolicesimo innestato di pensiero greco a ispirare questo capolavoro e la convinzione
di poter raggiungere la bellezza universale. Si potrebbe dire che la
presenza in Italia di una tradizione
pagana che vedeva nella dea Venere il culmine della bellezza femminile permise
ai nostri artisti di trasferirla sulla madre di Cristo, Basti pensare a quanta
devozione riscuoteva la Madonna anche
dai massimi poeti Dante e Petrarca. Dunque questo naturalismo rinascimentale in
qualche misura fu sostenuto anche dalla presenza di questo elemento femminile
impresso nella teologia. Tutto cambio’
con la Riforma che lo annullo’ per concepire un’idea di Dio solo al maschile
che non aveva certo bisogno di arte ed
emozioni per svelarsi ma semmai di successi commerciali e militari. Questa scelta di genere anche a livello
spirituale porto’ al res cogitans e res extensa di cartesiana memoria che
completo’ la svalutazione della natura e diede l’avvio al suo sfruttamento. Si
potrebbe dire quindi che il culto della Madonna ha protetto il rispetto per la vita e il
naturalismo artistico permettendo la realizzazione di capolavori che ancora ci
emozionano. Questo per dire cosa, direte
voi. Per dire che oggi necessita una
nuova estetica che valorizzi più che mai la natura facendo tesoro anche della
nostra tradizione religiosa che è stata in grado di influenzare l’arte di artisti
eccelsi come Michelangelo. Un commentatore su Facebook mi ha messo come
commento alla Pietà: Meglio un albero. Rispondo che ho il massimo rispetto per
gli alberi e sono d’accordo sul fatto che l’albero sia un essere vivente ma la bellezza è figlia della creatività e quanto
a questo natura e arte sono sullo stesso piano, la prima perchè produce vita e
la seconda perchè ne fa intravedere il trascendente se sa interpretarla senza
allontanarsene presuntuosamente.
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