Sono prossime le
votazioni per la scelta del sindaco a Milano. Come sempre succede ad ogni
tornata elettorale si sprecano le ipotesi di vittoria. Vincerà il centrodestra
o il centrosinistra? Ormai nessuno vuol più essere semplicemente o di destra o
di sinistra. A parte la discutibile diversità fra le due coalizioni che, stando
alla tradizione, dovrebbero portare al potere
nel primo caso il cosidetto
padronato, cioè chi il potere lo ha già, e nel secondo i diseredati e chi li
rappresenta, pare che ciascuno accampi il diritto di ergersi a paladino del
popolo. Le due anime si sono ormai confuse nell’aspirazione al potere tout
court, anche perchè a ben dire, a parte la sinistra di Rizzo, anche la
coalizione di centrosinistra è formata
dalla borghesia milanese più o meno illuminata e dai suoi managers. Quale
differenza dunque sussiste tra uno schieramento e l’altro? Si dice che bisogna guardare i programmi. Ma
i programmi si somigliano: tutti vogliono mostrare di tenerci a risolvere i
problemi dei cittadini, tutti i problemi e rendere gli elettori più felici.
Vota per me e ti faro’ felice, potrebbe essere lo slogan di destra e di
sinistra. Ma come? Più sicurezza, meno tasse, più assistenza, più lavoro,
più...più di tutto insomma. Ambedue affermano di voler risanare le periferie,
ognuno vuole più verde e meno traffico, tutti esibiscono onestà e coerenza. Ma
di queste promesse c’è possibilità che
qualcosa si realizzi al di là delle parole? L’amministrazione uscente quando ha
vinto le elezioni nel 2011ha festeggiato con musiche, peana e biciclettate,
sembrava che più che elezioni democratiche avesse vinto una guerra e fosse giunta l’ora della liberazione da un
regime oppressivo durato un ventennio, ma alla fine ha deluso la maggior parte
delle aspettative. A proposito ma la vogliamo finire di festeggiare una
elezione come se fosse una partita di calcio vinta? Non vi è nulla da
festeggiare ma da rimboccarsi le maniche, cioè prendere coscienza del lavoro da
compiere per il benessere della comunità e lavorare di conseguenza tenendo
presente le difficoltà che questo comporta. In primis non bisogna sottovalutare
il sistema burocratico che ingabbia le innovazioni per sua natura essendo
conservativo. Una riforma della burocrazia non sarebbe male, sia che venga da
destra che da sinistra. L’amministrazione Pisapia ha dato l’impressione di
schierarsi più dalla parte dei potenti che non dei cittadini comuni, si è
vantata di cose decise e iniziate da altri, Expo, Porta Nuova, eventi vari
della Moda, M4 e cosi via fallendo miseramente sulla tanto millantata
partecipazione a causa di una comunicazione spesso arrogante e spocchiosa. Del
resto uno dei suoi assessori più quotati si è dimesso. In buona sostanza ha
dato l’impressione irritante del “ siamo bravi solo noi perchè siamo noi”, soprattutto
da parte di assessori troppo giovani ed inesperti scelti con logiche dubbie. In
sintesi, a parte i programmi corposi, che pero’ poi camminano con le gambe degli
uomini, occorre più consapevolezza e senso di responsabilità di chi “vince” le elezioni, altro che canti e
festeggiamenti per l’assunzione del Potere. Serve più umiltà e senso estetico,
il bello come buono, vero e giusto, ricordando con Stendhal che la bellezza è
promessa di felicità.
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venerdì 27 maggio 2016
martedì 19 aprile 2016
Impatto ambientale
A proposito del
referendum sulle trivelle del Mar Adriatico fallito miseramente per non aver
raggiunto il quorum riporto quanto scrivevo nel mio libro “L’uomo, l’ambiente,
la casa” sulla questione dell’impatto della tecnologia sull’ambiente. La valutazione
di impatto ambientale è un fenomeno
tipico della nostra civiltà, che si avvelena e poi controlla che il veleno non
sia mortale. Pertanto essa costituisce a
monte un problema di natura culturale, controllato negli effetti con le
tecniche delle scienze naturali riconducibili alle scienze esatte. Esiste pero’
un importante aspetto della valutazione di impatto che sfugge alla valutazione
delle scienze chimico-fisiche ed è l’impatto di natura visivo-percettiva.Si
tratta di un impatto totalmente psicologico, legato alle opinioni di chi
fruisce l’ambiente, cioè l’abitante, pertanto verifiche e valutazioni sono da
affrontarsi solo con quelle discipline legate ai fenomeni culturali. A questo
punto credo sia onesto sottolineare che se nella valutazione di impatto basata
su considerazioni di ordine scientifico, chimico-fisico, pur essendoci una
buona dose di aleatorietà, è pero’ possibile una certa obiettività, nella
valutazione “culturale” dell’impatto tutto è molto più complesso perchè entrano
in gioco fattori diversi, legati appunto alle tendenze culturali, ai rapporti
tra cultura dominante e culture subalterne ed anche al sapere non scientifico.
Impatto, come si diceva, presuppone già una sorta di scontro tra l’intervento
dell’uomo e l’ambiente preesistente; una mentalità che bene o male rifiuta questo
scontro, ma ricerca l’armonia è sicuramente la migliore garanzia di corretta
valutazione di impatto. Infatti quando il
dott Paul Racamier afferma che i “malati mentali” sono molto più
sensibili alla struttura fisica e all’aspetto dello spazio in cui vivono di quanto
non lo siano le persone cosidette normali, cio’ deriva dal fatto che le persone
cosidette normali sono, in realtà, normalizzate, adattate a forza al loro nuovo
ambiente. Se si assimila dunque la nostra cultura a una cultura di normalizzati
la valutazione degli effetti di impatto psicologico sarebbe già in se sbagliata
se rapportata solo alla nostra cultura. In realtà il primo impatto di un
intervento dell’uomo nell’ambiente è di natura visivo-percettiva, cioè mentale,
e quindi psicologica, antropologica e sociologica. Allora la prima cosa da
chiedersi quando si debba intervenire in una data regione credo proprio che sia
se la cultura (o le culture) ivi presenti siano in grado di accettare, senza
troppi contraccolpi cio’ che si deve insediare, sia un opificio o una strada o
una centrale elettrica o infine delle piattaforme per la ricerca del petrolio.
Il geografo Eugenio turri aveva brillantemente analizzato in Semiologia del
paesaggio italiano come una trasformazione violenta del paesaggio ad opera
della nostra civiltà tecnicista possa incidere sulla psicologia della
popolazione locale legata a quei luoghi
da generazioni. A questo una politica della bellezza dovrebbe tendere.
lunedì 18 aprile 2016
lunedì 4 aprile 2016
Dell'eleganza in città
Borgo ligure, acquarello su carta
Oggi un’altra
categoria in crisi è l’eleganza. Essa ha a che fare con la bellezza. Deriva dal
verbo latino elegere che è un rafforzativo di legere corrispondente sia all’italiano scegliere che leggere.
Eleganza vuol dunque significare saper
scegliere. E’ sinonimo di grazia, accuratezza, garbo, leggiadria, ricercatezza,
gentilezza. Il contrario di trascuratezza e sciatteria. Eleganza vuol dire
anche cura e attenzione. Un’architettura
elegante è quella che deriva da una cura particolare nella scelta delle misure,
dei rapporti geometrici, dei materiali e della decorazione. La sezione aurea,
per esempio, è il rapporto più elegante in natura, scoperto dagli egizi e dai
greci empiricamente. Misura è un’altra versione di eleganza. E’ elegante un
manifatto che denota energia non sprecata. Anche dal punto di vista statico è
elegante un’opera che mostra forza e al tempo stesso grazia, dove si intravede
studio e rispetto, dove un problema complesso è risolto con semplicità:
semplicità e complessità sono due opposti che la bellezza contiene e tende a far
coincidere, come altri, con eleganza. Coincidentia oppositorum, dichiara
Niccolo Cusano per denotare la bellezza divina. Ecco! eleganza come lettura divina, giusto
equilibrio fra gli opposti. A noi sembra
elegante un’opera umana che si contrappone alle forze naturali con il minimo
sforzo, come le cattedrali gotiche,, nelle quali le pietre pesanti sfidano la
forza di gravità e sembrano esaltare la leggerezza per raggiungere grandi
altezze. Ancora due opposti che si uniscono, pesantezza e leggerezza, come si
puo’ notare la bellezza è misteriosa. Oggi non c’è molta eleganza nella società
globalizzata, cosi come nell’architettura evento mediatico conseguente. (da L’altro
architetto, Casagrande editore)
martedì 15 marzo 2016
Della bioarchitettura
Antibes, acquerello su carta
Da tempo l’ecologia
da pura scienza della natura si sta
trasformando in un nuovo pensiero che investe anche le discipline umanistiche e
in generale tutta la cultura di questo inizio millennio. Ogni tanto nella
storia dell’uomo si presenta la necessità di cambiare il paradigma di partenza
per una nuova interpretazione della realtà che permetta un migliore adattamento
e uno scatto evolutivo. Di questi tempi è l’approccio sistemico bioecologico
che in tutti i settori sembra costituire la nuova opportunità. E’ inevitabile riflettere che questa nuova
opportunità è in effetti molto antica, ma la nostra cultura, protesa verso
altri traguardi l’ha trascurata. La sfida che oggi abbiamo di fronte è quella
dell’accettazione della complessità e non separatezza delle cose. Ogni
disciplina dunque puo’ essere riletta in questa chiave e l’architettura,
essendo per tradizione la meno specialistica, bene si adatta ad essere
rivisitata da un punto di vista ecologico ed olistico.
Questo scrivevo nella
premessa al mio libro L’uomo, l’ambiente, la casa. Verso un’etica bioecologica
dell’architettura, del 1992, Guerrini Editore.
E’ cambiato qualcosa? E’ evidente che no. Siamo ancora li’ a dire le
stesse cose come se non fossero passati
tutti questi anni. Gli architetti sono sempre più numerosi in Italia ma senza
lavoro e l’architettura è sempre più appannaggio di investitori con la vanità
di mostrare il proprio potere economico attraverso l’esibizione di edifici
eventi che si stagliano anomali sulla città. Azioni contro la città anzicchè al
servizio di essa. La cosidetta bioarchitettura, di cui noi siamo stati i
precursori, ha solo costituito un ulteriore modo per distinguersi, narcisistico
ed egoico, da parte di architetti e committenti che hanno voluto mettere in
mostra la loro originalità. In alcuni casi archistar internazionali, che mai
hanno mostrato sensibilità alla tematica ambientalista, ora si sono riciclati
in senso ecologico rivestendo i propri grattacieli di elementi naturali e
avanzate tecnologie pseudoecologiche. Qualcuno afferma che l’architetto
dovrebbe essere un’antenna sensibile ai cambiamenti e dunque quello che in anni
recenti era dettato dall’esaltazione del credo tecnoscientifico oggi è dettato
dalle mode eco. Ma in questo panorama
l’integrazione dell’architettura nella città viene tranquillamente dimenticata e l’architetto Carlo Ratti pensa di costruire un edificio di 1609 metri
coprendolo di elementi vegetali dei vari paesi, quasi un’Expo in verticale.
sabato 27 febbraio 2016
Moda e arte
La Santa, acquarello su carta, cm 30x40
Leggo sui giornali
che la moda ha adottato l’arte ma esiste una sostanziale differenza tra le due
benchè spesso la moda si definisca appannaggio dei creativi. Le mode infatti
(con questo intendo tutto cio’ che fa tendenza) enfatizzano le aspirazioni collettive
del momento e siccome questo è sempre intrecciato con il potere e con l’invidia
di esso, e dei suoi simboli, mettono in
scena quanto è status symbol del
momento. Che poi cambia per generare nuovi consumi, a volte visti con assolutismo
perchè si aspira ad un proprio potere. La moda quindi semplifica e falsa, dando
malessere e frustrazione se si trasferiscono su di essa i valori della vita. La
bellezza, che dovrebbe essere alla base della ricerca artistica, sta nella
diversità e nella complessità perchè funzionali alla vita. La moda dunque , se
viene investita delle nostre esigenze di
assoluto e la si trasforma in culto, allora diventa una droga per anestetizzare
i veri bisogni di unificazione. Alla
domanda quindi in che cosa consista la differenza tra moda ed arte si puo’
rispondere che la moda è una parodia dell’arte. Mentre la vera arte pesca nella
bellezza cosmica la moda cerca di costruire modelli cui aderire. Qualche volta
si serve dell’arte ma mentre quest’ultima scava in profondità e trova la natura estetica
dell’essere che dà libertà ed armonia, la prima utilizza il più delle volte il
fascino del potere per creare falsi modelli di perfezione e provoca
asservimento se non la si prende come un futile gioco. I giovani sono esposti a
questo in quanto sentono più forte il bisogno di appartenere a qualcosa di
esteriore: una comunità, un paese, una squadra ecc. Il bisogno religioso di bellezza, e
quindi cioè di unità interiore, negato si degrada dunque in bisogno di aderire
a modelli esteriori imposti. Tanto più
uno è diviso dentro e tanto più si attacca a modelli esterni che sono dei
sostituti di unità e quindi di amore. Si potrebbe dire che la moda è inerente
allo stato di coscienza ordinario, quello causale funzionale, l’arte invece è
tipica dello stato di coscienza acausale, simbolico e quindi
straordinario.L’arte cerca e trova, la moda cerca e, non trovando, imita. Il
fenomeno della moda è più eclatante nel campo dell’abbigliamento perchè
vestirsi è comune a tutti gli uomini, che bene o male soggiacciono alle mode,
ma esiste anche in tutti gli altri campi tipici dell’arte e soprattutto è
presente in quello che riguarda l’abitare, altra funzione connessa all’essere
uomini. Di per sè imitare non è assolutamente negativo, anzi. Anche un grande
poeta come Goethe difendeva l’imitazione purchè subordinata alla verità. Per
cui seguire mode non è in sè un male, a meno che non siano palesemente
distruttive o autolesive, ma come al solito tutto si complica quando viene
introdotto l’elemento potere. Se uno pensa
di acquisire più potere, quindi
prestigio, e si investe il fatto esteriore di un valore assoluto la moda allora
diventa competizione vitale: se riesci a seguirla sei qualcuno se no non sei
nessuno. In questo caso è un fattore alienante perchè impedisce la vera
crescita che è trovare il Sè, ovvero quella parte che ci mette in sintonia con
il mondo e con la natura, che è essenzialmente artistica e ci dà benessere ed
energia. L’arte vera infatti è sempre un’ operazione di risacralizzazione e quindi trasfigura i mezzi materiali di cui
si serve. La moda ha un fine economicistico e utilitaristico che si scontra con
le esigenze ecoantropologiche di equilibrio creativo. Nell’arte i mezzi
materiali diventano oggetti di culto, nelle mode vengono consumati, buttati e
finiscono nelle discariche.
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mercoledì 10 febbraio 2016
La crisi dell'amicizia
Infinito, olio su tela
Aristotele
distingueva tre tipi di amicizia, quella per l’utile, quella per il piacere e
quella vera disinteressata per il bene comune. Oggi possiamo affermare che
nella società del capitalismo avanzato e dei social-media, dove si chiede e si
dà l’amicizia via internet, trionfano le prime due ma è senza dubbio in grave
crisi l’ultima. Amici nella tradizione sono due persone che entrano in un
rapporto di intimità e di simpatia per aiutarsi e sostenersi. Non è mai stato
facile trovare un amico infatti un vecchio proverbio recita: chi trova un amico
trova un tesoro, a sottolineare che un vero amico è raro. Tuttavia in una
società meno competitiva, come quelle del passato, era sufficientemente possibile, oggi nella
nostra civiltà dei consumi è molto raro. E’ più raro di un rapporto d’amore. L’amicizia,
quella del terzo tipo, presuppone saggezza e distacco, un ego realizzato e una
buona dose di gioia fondamentale. Senza questi ingredienti si cade
nell’invidia, nella gelosia e nella rabbia. Tutte emozioni negative che
avvelenano l’amicizia. Un amico è colui
che prova piacere dei tuoi successi e dispiacere per le tue sconfitte e i tuoi
lutti ed è pronto a darti una mano. Invece si nota che nella nostra società
individualista ognuno tende sempre a misurarsi con l’amico in ragione di una
specie di gara verso il successo. Questo lo impariamo presto, a scuola i primi
anni ci insegnano a gareggiare nel profitto e gli insegnanti ci stimolano a
questo credendo cosi di ottenere di più. Ma non è cosi. Quando insegnavo avevo
adottato un metodo in cui il bravo doveva aiutare il meno bravo in un lavoro
collaborativo ottenendo risultati sorprendenti.
Tutti alla fine vogliamo essere felici, realizzarci, scoprire il
significato della nostra esistenza e compierlo, desideriamo che le altre persone ci amino e ci
rispettino e vogliamo sentirci sicuri. Il vero amico ha compreso questa nostra
uguaglianza e non si scandalizza se in questa ricerca ci allontaniamo per un
po’. Non è geloso e non prova invidia. Accetta
che ognuno ha un percorso diverso da compiere nella vita per la propria
realizzazione e, cosciente del proprio, non desidera sovrapporsi a quello
dell’altro, anzi è interessato a comprenderlo e sa che lo arricchisce perchè è
la manifestazione dello stesso Spirito che alberga in lui e prende diverse
forme. Il termine sanscrito “namastè”, che è un saluto indiano, vuol dire
proprio questo: riconosco in te lo spirito che è in me. Come si potrà notare
questa realtà amorosa è piuttosto rara. A volte si diventa amici perchè si hanno gli
stessi interessi e valori. Questo accade sovente in politica e fra maestri e
allievi ma questa amicizia tende a finire quando l’allievo si mette a competere
e vuole superare il maestro. Le virtù che reggono l’amicizia sono l’onestà, la
coerenza, la stima, la dignità, l’umiltà, la compassione, la comprensione, la
tolleranza e la generosità, tutti attributi lontani dalla egolatria imperante
nella nostra società individualista. Questo vale anche per le coppie nel rapporto erotico che in più hanno
l’attrazione sessuale e potrebbero rientrare nelle amicizie per piacere.
Infatti se non si matura una amicizia vera, con il passare del tempo e con
l’inevitabile caduta del desiderio, finiscono. Per quanto riguarda le coppie
etero poi si debbono superare due archetipi che dormono in ciascuno, dominano
il rapporto maschio femmina e influenzano sempre la scelta del partner: il mito
dell’eroe per lei e il mito della maga fascinatrice per lui. E arriviamo
all’amicizia dei politici. Quella la possiamo ascrivere in generale nella
categoria aristotelica dell’utile, in una mentalità dicotomica che divide la
realtà in amici e nemici in funzione del raggiungimento del potere. Queste amicizie
sono ovviamente transitorie e superficiali, ognuno pensa alla propria
convenienza e sono pompate dai mass-media e dai sostenitori. Torniamo ad
affermare che l’amicizia è una cosa seria per persone illuminate, rare oggi e
soprattutto fra i politici.
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